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Messaggio Da ubik Dom 10 Nov - 18:46

LA ROMA DEI GIUSTI - "HER" DI SPIKE JONZE NON È SOLO UN ORIGINALISSIMO FILM DI UNA FANTASCIENZA "POSSIBILE", È ANCHE UN BEL SAGGIO SULLA NOSTRA VITA SOCIALE E AFFETTIVA FRA GLI ECCESSI DI APP E SOCIAL NETWORKS
Riuscitissimo "Las brujas de Zugarramurdi" di De la Iglesia che unisce quasi sempre il divertimento cinefilo, le citazioni, a situazioni estreme e a metafore sulla situazione spagnola...
 
Marco Giusti per Dagospia
 
Terzo giorno del festival. Oggi piove, ma per fortuna i film sono parecchio buoni e il programma ci sembra più riuscito dell'anno scorso. "Her" di Spike Jonze con Joaquin Phoenix, Amy Adams, Rooney Nara e la voce di Scarlett Johansson, gia' salutato in America come una grande novita', non e' solo un originalissimo film di una fantascienza "possibile" come era ovvio aspettarsi dal regista, e' anche un bel saggio sulla nostra vita sociale e affettiva fra gli eccessi di app e social networks.
Lo scrittore Theodore, un serissimo Joaquim Phoenix, da poco mollato dalla moglie, non riesce a superare la fine del rapporto, e cerca di riempire il suo vuoto sentimentale prima con inutili chat poi con incontri al buio di scarsa efficacia. Ma si leghera' in un assurdo rapporto con la sua assistente virtuale di ultima generazione, Samantha, che gli legge le mail, le cestina e entra sempre piu' dentro alla sua vita.
Non e' facile mettere in scena una storia simile come non e' facile parlare del rapporto che abbiamo coi tablet, i cellulari, I giochi virtuali, "Her" fortunatamente non sviluppa la storiella alla John Hughes della donna di cartone che prende vita, ma studia il nostro comportamento quotidiano col mezzo che frequentiamo e le nostre sempre piu' tortuose solitudini.
Gran pubblico e grandi applausi anche per il film piu' scatenato e divertente visto finora al festival. E' l'ultima opera del maestro dell'horror spagnolo Alex de la Iglesia, che da "El dia de la bestia" a "Ballata triste de trompeta" e' stato tra i pochi autori di genere invitati ai festival europei, anche prima delle riscoperte tarantiniane.
De la Iglesia unisce quasi sempre il divertimento cinefilo, le citazioni, a situazioni estreme e a metafore sulla situazione spagnola. Anche in questo riuscitissimo "Las brujas de Zugarramurdi", cioe' "Le streghe di Zugarramurdi", presentato a Roma fuori concorso, questa incursione nel mondo delle streghe e' comunque segnata, fin dai titoli di testa, dove accanto alle rappresentazioni delle vere streghe del passato e' associata anche Angela Merkel, dai segni della crisi economica spagnola.
Proprio perche' siamo in tempo di ristrettezze, un gruppo di sfigati, massacrati dalle mogli e dal poco lavoro, decidono di fare un colpo al banco dei pegni per arraffare un bottino di 25.000 fedi nuziali d'oro. Per farlo si travestono da artisti di strada, c'e' Sponge Bob, Minnie, l'uomo invisibile, il soldatino verde e perfino un Cristo argentato che tiene il mitra dentro la croce. E' proprio Cristo, cioe' Hugo Silva, il capo della banda, talmente scombinato che si e' portato dietro il figlioletto Sergio perche' e' il suo giorno da divorziato ("Non lo vedo mai!").
Ma ognuno dei partecipanti della sanguinosa rapina, per non parlare dei poliziotti che si buttano all'inseguimento, ha dei problemi con le proprie compagne, come se la crisi avesse fatto scoppiare anche i rapporti fra i sessi. Ridotti a tre, Cristo, il figlioletto e il soldatino verde Tony, cioe' Mario Casas, prendono possesso di un taxi, guidato dal buffo Manuel, Jaime Ordonez, padre di tre figli e mal sposato, e si dirigono verso la Francia, inseguiti dalla moglie di Cristo e da due buffi ispettori, Secun de la Rosa e Pepon Nieto.
Ma il gruppetto di fuggiaschi non avra' vita facile nell'attraversare il paesino di Zugarramurdi, pieno di terribili streghe, capitanate da Graciana, una grande Carmen Maura, dalla vecchia nonna Maritxu, Terele Pavez, e dalla piu' giovane e attraente Eva, la bonissima Caroline Berg. Non sono affatto buone queste streghe, non si accontentano di dominare i maschi, progettano proprio di intronarli e mangiarseli.
De la Iglesia non si ferma a mettere in scena l'horror, e' anche preoccupato di costruire dialoghi fra maschi e femmine che prendono di mira lo scontro quotidiano fra i sessi, cosi' situazioni terrificanti sono sviluppate assieme a puri momenti di commedia.
Grande film. Come non si possono fare in Italia, anche se non si capisce bene perche', dove un regista puo' permettersi di giocare con la religione, la politica, la satira sociale dentro un grande horror di livello internazionale. C'e' spazio pure per un incredibile omaggio a Jose' Manuel Moreno e al suo pupazzo Rockfeller. Momento altissimo....
 
dagospia
 

 

 
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Messaggio Da ubik Sab 7 Dic - 22:52

Efa, trionfa La grande bellezza
Premiato per film, regia, protagonista Servillo e montatore
 
(ANSA) - BERLINO, 7 DIC - Trionfo per La grande bellezza di Paolo Sorrentino agli Efa, gli European Film Awards, considerati gli Oscar europei, assegnati a Berlino. Oltre ai riconoscimenti per il miglior film, il miglior regista e il miglior attore (Toni Servillo), tra i premi tecnici già assegnati c'è quello per il miglior montatore, andato a Cristiano Travaglioli.
 
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Messaggio Da ubik Ven 20 Dic - 22:50

Cinema, 'La grande bellezza' nella shortlist dei 9 per l'Oscar
Film di Sorrentino supera prima selezione per film straniero

La Grande bellezza di Paolo Sorrentino è entrato nella shortlist di nove titoli ancora in gara per l'Oscar come miglior film straniero. I cinque titoli finalisti saranno annunciati insieme alle altre candidature il 16 gennaio.
Insieme a La Grande bellezza di Paolo Sorrentino, sono entrati nella shortlist dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences per il film straniero: The Broken Circle Breakdown (Belgio) di Felix van Groeningen; An Episode in the Life of an Iron Picker (Bosnia Herzegovina) di Danis Tanovic; The Missing Picture (Cambogia) di Rithy Panh; Il sospetto (Danimarca) di Thomas Vinterberg; Two Lives (Germania) di Georg Maas; "The Grandmaster" (Hong Kong) di Wong Kar-wai; The Notebook (Ungheria) di Janos Szasz; Omar (Palestina) di Hany Abu-Assad.

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Messaggio Da ubik Lun 13 Gen - 23:57

Golden Globes, Sorrentino batte La vie d'Adèle: il Grande Abbaglio?
Il magniloquente La Grande Bellezza è stato preferito al capolavoro lesbico di Kechiche. Trionfano "Dallas Buyers Club" e "Behind The Candelabra", grande sconfitto "Philomena" di Frears.

«Ottima sera a tutti i presenti in sala, alle donne e ai gay che guardano da casa». Così la strepitosa attrice comica Amy Poehler ha introdotto ieri sera, al Beverly Hilton Hotel di Los Angeles, insieme all'altrettanto spassosa collega Tina Fey, la premiazione dei 71esimi Golden Globes assegnati dalla stampa straniera di stanza a Hollywood. Una cerimonia scoppiettante e ilare, densa di battute ficcanti: “Gravity è la storia di come George Clooney vagherebbe nel vuoto e morirebbe pur di non trascorrere un minuto di più con una donna della sua età” ha spiegato Tina Fey tra le risate fragorose degli ospiti comodamente seduti intorno ai tavoli inondati di champagne.

I vincitori principali rientrano nelle previsioni: l'epico 12 anni schiavo di Steve McQueen è il miglior film drammatico, il vintage American Hustle su una vera megatruffa finanziaria avvenuta negli anni Settanta, diretto da David O. Russell, trionfa tra le commedie. Da un punto di vista queer possiamo riscontrare che ci sono due grandi vincitori e altrettanti perdenti: Dallas Buyers Club fa piazza pulita tra gli interpreti maschili, col Globo d'Oro a due attori letteralmente trasformati a livello fisico per incarnare due malati di Aids, rispettivamente un elettricista omofobo e una splendida trans: Matthew McConaughey («Questo film parla sempre di vita, mai di morte») e Jared Leto («Ho dovuto depilarmi tutto il corpo ma non ho fatto la ceretta brasiliana: le donne la conoscono e anche alcuni uomini!»). Tra gli attori di commedie e film musicali vince Leo DiCaprio per l'isterica commedia scorsesiana The Wolf of Wall Street mentre fra le attrici drammatiche non c'era competizione per l'inarrivabile Cate Blanchett di quel magistrale Tennessee Williams allo Xanax che è Blue Jasmine, il miglior Woody Allen dai tempi di Match Point, premiato alla carriera ma non presente in sala (Diane Keaton ha ritirato il suo Globo d'Oro). Le due mattatrici di American Hustle, la neostar non-solo-fantasy Jennifer Lawrence e l'eclettica Amy Adams, che tra l'altro si baciano in una scena saffico-provocatoria del film, sbaragliano le avversarie nella categoria dei film "non drammatici".

Nell'ambito dei prodotti televisivi trionfa l'eccelso biopic su Liberace, Behind The Candelabra di Soderbergh, miglior film e miglior attore, un radioso Michael Douglas che ringrazia il suo collega Matt Damon, nel film il suo grande amore Scott Thorson: «È l'attore con più coraggio e talento col quale abbia mai lavorato. L'unico motivo per cui non sei qui sul palco è perché io ho più scene di te!».

Ma ci sono anche due sonore sconfitte: lo sgorgalacrime Philomena di Stephen Frears resta a bocca asciutta, battuto pure nella categoria in cui era fortissimo, ossia la sceneggiatura di Steve Coogan e Jeff Pope, da Spize Jonze per il cyberfuturista Her con Scarlett Johansson tecno-immaginata in quanto non appare mai ma di lei si sente solo la voce suadente filtrata da un programma informatico (per questo motivo è stata definita "ineleggibile" dai giurati).


Il capolavoro lesbico La vie d'Adèle è stato battuto a sorpresa dal "nostro" La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (era un quarto di secolo che un film italiano non vinceva: l'ultimo fu Nuovo Cinema Paradiso nel 1989) che ormai ha la nomination agli Oscar in tasca – le scopriremo giovedì prossimo. Il Grande Abbaglio? Siamo molto contenti della vittoria di Sorrentino, ovviamente, e non per puro campanilismo, ma dobbiamo ammettere che quella meraviglia di Kechiche è vistosamente più bello: La Grande Bellezza ha una straordinaria regia magniloquente, Sorrentino è un vero virtuoso della macchina da presa, fotografia e musiche sono magnifiche, ma il film è più fragile dal punto di vista della scrittura, un po' come si sente il giornalista-romanziere protagonista, Jep Gambardella, interpretato con felice ispirazione da Toni Servillo (curiosità: c'è anche una scena queer, quando Jep rivela all'amica engagée Stefania, davanti agli amici, che il marito Eusebio è in realtà innamorato di tale Giordano).

«Grazie all'Italia che è un paese pazzo ma bello», ha commentato Sorrentino sul palco. Pazzo, di sì, di gioia perché grazie a lui possiamo iniziare davvero a credere che l'Oscar per il miglior film non americano possa tornare nel Belpaese quindici anni dopo il trionfo planetario di Benigni e il suo acclamato La vita è bella.


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Messaggio Da ubik Dom 2 Mar - 20:11

Marco Giusti per Dagospia
Chi vincerà l'Oscar 2014? Mah! Su twitter sembra tutto chiarissimo e sicuro. Gli esperti, americani e inglesi, dicono che la battaglia principale sarà tra "Gravity" di Alfonso Cuaron e "12 anni schiavo" di Steve McQueen.
Il primo amato per il sortilegio tecnico che ha inchiodato i votanti, il secondo è meno amato, più difficile, ma è il film che avrebbe diritto alla vittoria perché importante, perché "tratto da una storia vera", e quest'anno vanno davvero di moda le storie vere, perché innovativo e politicamente corretto. Mica come "Django Unchained"!
Neanche piazzato "The Wolf of Wall Street" di Martin Scorsese, troppo violento e scorretto, con tanto di cazzo finto di Jonah Hill che ancora imbarazza e spaventa i membri dell'Academy. Non sia mai. Per quanto riguarda "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, non ci dovrebbero essere problemi, è il favorito, anche se i francesi spingono sul film belga, "Alabama Monroe" di Felix Von Groenigen, che ha vinto come miglior film straniero i Cèsars e gli inglesi sul danese "La caccia" di Tomas Vingterberg, da noi noto come "Il sospetto".
Mi dispiace molto per Roberto D'Antonio, parrucchiere di Sabrina, di Sorrentino, perfino della Madia, che non sarà a Hollywood. Almeno credo. Ma andiamo per ordine senza fare confusione. Miglior film. Se la vedranno "12 anni a schiavo" e "Gravity". Se vince "Gravity" per Alberto Barbera, che lo ha voluto come apertura del Festival di Venezia, contro quelli che gli avrebbero preferito "Rush" di Ron Howard, sarà un trionfo personale e una consacrazione internazionale. Alla faccia di Cannes e di Muller.
Miglior regista viene dato ovunque il messicano Alfonso Cuaron, appunto per "Gravity". Non ci dovrebbero essere rivali, anche se personalmente preferirei Scorsese. Ma è difficile che vinca. Miglior protagonista maschile è quasi sicuro Matthew McConaughey per "Dallas Buyers Club". Lo dicono tutti. E miglior attore non protagonista è Jared Leto, sempre per "Dallas Buyers Club".
E se vincono un po' di gloria va anche a Marco Muller, che ha portato il film al Festival di Roma e ha premiato appunto Matthew McConaughey (anche se c'era solo Jared Ledo a presentare il film). Potrebbe essere un buon outsider il non-attore Barkhad Abdi, brutto e cattivissimo in "Captain Phillips", ma bravissimo. Di professione faceva il tassinaro. Se non vince, è probabile che torni a farlo.
Miglior protagonista femminile dovrebbe essere Cate Blanchett per "Blue Jasmine" di Woody Allen. Non ci sono tante rivali possibili. Miglior attrice non protagonista viene data la favolosa Lupita Nyong'o per "12 anni schiavo". Con tutte le frustate che si prende da Michael Fassbender ha la vittoria assicurata. Seconda favorita è Jennifer Lawrence per "American Hustle", che a 23 anni è già stata nominata tre volte.
Per la miglior sceneggiatura originale se la vedranno "Her" di Spike Jonze, grande favorito, e "American Hustle" di David O. Russell. Più probabile e più giusto che vinca Spinke Jonze. Per la miglior sceneggiatura non originale se la vedono John Ridley per "12 anni schiavo", più probabile vincitore, e i due sceneggiatori inglesi di "Philomena".
Per il miglior film animato è già strasicuro "Frozen" della Disney-Pixar, anche se è molto più bello "Il vento si alza" di Hayao Miyazaki. "Frozen" vincerà anche per la miglior canzone, cioè "Let It Go". Miglior fotografia è sicuro Emanuel Lubezki per "Gravity", anche se è notevolissimo anche il lavoro fatto dal francese Bruno Delbonel per "Inside Llewyn Davis".
Per i costumi si parla di "The Great Gatsby", per il montaggio a parità "Gravity" e "Captain Phillips", per trucco e parrucco è sicuro "Dallas Buyers Club", per la scenografia se la vedono "American Hustle" e The Great Gatsby", per gli effetti speciali non c'è che "Gravity" come candidato (è dato al 100%). Per il suono pure. Per la musica se la vedono gli Arcade Fire per "Her", sarebbe strepitoso, e Steven Price per "Gravity". Preferisco gli Arcade Fire.
Purtroppo, a parte "La grande bellezza", l'Italia quest'anno non può vantare tra i nominati né uno scenografo né un musicista, né un direttore della fotografia, né un costumista. Per i nostri reparti tecnici è un vero smacco. E un'ingiustizia. Ma se si continuano a fare solo commedie nazionali e se non si girano più da noi neanche i film storici, credo che l'Oscar per i nostri grandi tecnici ce lo possiamo dimenticare. Domani si saprà...
POST SCRIPTUM
Per fortuna e' arrivato Curzio Maltese per il trionfo italiano. Ci fa sapere che Sorrentino e' "l'uomo di cui tutti parlano" in quel di Los Angeles e ci fa presente che, come Matteo Renzi, e' nato dopo il 1970. Unire Sorrentino a Renzi sotto l'etichetta della grande bellezza italiana, mettiamoci anche Fazio, e' quello che ci mancava nella prima pagina di Repubblica.
Fulvia Caprara, sulla Stampa, ci fa invece sapere che sono arrivati Umberto Contarello e Anita Kravos, che le feste le paga Giorgio Armani e si lamenta della mancanza di Sabrina Ferilli. Ma non avrebbe certo potuto accontentarsi di un posto in loggione, visto che i quattro posti principali erano gia' presi. Giusto cosi'.
Certo, vedere Sabrina sul tappeto rosso degli Oscar non sarebbe stato male. Dovremo accontentarci di Cate Blanchett e di Amy Adams. Vanity Fair, nelle sue ultimissime previsione ci da' "12 anni schiavo" favorito su "Gravity" come miglior film. Alfonso Cuaron su Steve McQueen, Matthew McConaughey su Di Caprio, Cate Blanchett su Sandra Bullock, e "La grande bellezza" su "Alabama Monroe".
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Messaggio Da anna Lun 3 Mar - 0:57

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Tony Servillo e Paolo Sorrentino sul Red carpet  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 4081003426
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Messaggio Da anna Lun 3 Mar - 12:02

Oscar 2014, i vincitori. Miglior film è 12 anni schiavo. Sette premi per Gravity
Snobbati dall'Academy American Hustle e The Wolf of wall street di Martin Scorsese. La partita Dolby Theatre di Los Angelesa lascia sul terreno vittime illustri come Leonardo DiCaprio e ne consacra altre, inattese, come Alfonso Cuaron e Matthew McConaughey, rispettivamente miglior regista e miglior attore. Premiati Blanchett, Leto e Nyong'o per le loro interpretazioni



12 anni schiavo e Gravity vincono, American Hustle e The Wolf of Wall Street perdono. La partita degli Oscar 2014 lascia sul terreno vittime illustri come Leonardo DiCaprio e ne consacra altre, inattese, come Alfonso Cuaron e Matthew McConaughey.

I due grandi divi si contendono fino all’ultimo la statuetta di miglior attore, ma attorno alle 5.45 ora italiana, dal Dolby Theatre di Los Angeles, è Jennifer Lawrence in rosso ad estrarre dalla busta il nome di McConaughey. Di Caprio, che un’ora prima era stato l’unico ad aver rifiutato un trancio di pizza gentilmente offerto dalla presentatrice Ellen DeGeneres durante uno degli sketch più apprezzati della serata, molla la presa un po’ come il suo personaggio in The Wolf of Wall Street. Dall’altra parte resiste e vince un McConaughey dimagrito 23 chili per interpretare Ron Woodroof in Dallas Buyers Club, l’uomo che sfidò il sistema sanitario americano per legalizzare le medicine che gli permetterono di sopravvivere all’Aids. “Ringrazio Dio, è lui il mio modello”, ha spiegato l’attore texano in smoking bianco che ha visto la sua carriera rinata e rilanciata dopo le commedie romantiche fine anni novanta/inizio duemila.

Nella serata condotta dalla DeGeneres tra scatti selfie, tweet e modi spiccioli, che qualcuno su Twitter ha ribattezzato, parafrasando il film di Sorrentino, ‘la grande lentezza’, si sono però registrate due grandi sorprese: i sette Oscar a Gravity e la statuetta come miglior film per 12 anni schiavo. Per il film di Cuaron, anteprima mondiale a Venezia 2013, la lista va dalla vittoria negli effetti speciali, poi al suono, al montaggio suono, alla fotografia, al montaggio, colonna sonora, senza dimenticare il premio come miglior regista al visionario Alfonso Cuaron.

Assente a Los Angeles l’attore protagonista del film George Clooney, presente e pluricitata nei ringraziamenti la protagonista Sandra Bullock (“Tu sei Gravity, la persona più bella con cui lavorare”, ha detto il regista messicano dal palco del Dolby), Gravity ha ricevuto parole premonitrici nei giorni scorsi quando un regista come James Cameron che di Oscar se ne intende, l’aveva definito il miglior film ‘spaziale’ di tutti i tempi.

12 anni schiavo è il terzo vincitore della serata degli Oscar 2014. Statuetta più importante, quella come miglior film, e altri due premi ‘minori’ come la sceneggiatura non originale di John Ridley (tratta dalle memorie di Solomon Northup) e all’attrice non protagonista Lupita Nyong’o premiata da Christoph Waltz: “Non pensavo che un momento di gioia come questo potesse nascere da un dolore così grande come quello subito da Patsey, il personaggio che ho interpretato”, ha spiegato la 31enne, quasi per caso finita davanti la macchina da presa dopo aver fatto parte della produzione in The Costant Gardener, “non importa da dove venite, tutti i sogni si avverano”. Felice e incredulo anche Steve McQueen abbracciato ad uno dei sette produttori del film, Brad Pitt: “La vera eredità lasciatoci Solomon Northup è quella di averci insegnato che dobbiamo vivere e non sopravvivere. L’Oscar lo dedico a chi ha sofferto e soffre ancora oggi la schiavitù”.

Non del tutto imprevisto, ma uscito dai listini dei bookmakers dopo il recente scandalo familiare che ha colpito Woody Allen, è l’Oscar a Cate Blanchett per Blue Jasmine: “Il film è rimasto in sala molto più del previsto”, ha spiegato l’attrice australiana che ha sbaragliato colleghe come Amy Adams, Sandra Bullock , Judi Dench e Meryl Streep, “un film con donne protagoniste non sono di nicchia, gli spettatori li vanno a vedere e fanno guadagnare”

Dallas Buyers Club, film dal basso budget, conquista comunque tre Oscar (attore principale, attore non protagonista a Jared Leto, trucco), il flop del Grande Gatsby – sempre con DiCaprio – fa due su due (costumi e scenografia), mentre l’acclamato American Hustle viene ignorato. Così come, dopo tre ore e mezzo di show, si comprende che l’Academy non ha amato per niente The Wolf of Wall Street, e che Martin Scorsese è finito per essere citato più che nella lista dei vincenti, tra le quattro personalità ispiratrici del nuovo trionfatore degli Oscar 2014, Paolo Sorrentino. “Ringrazio i Talking Heads, Fellini, Scorsese e Maradona”, ha affermato il regista napoletano nel ritirare il premio assieme a Toni Servillo e Nicola Giuliano, “quattro campioni nella loro arte che hanno insegnato a tutti come fare un grande spettacolo”.



Infine una curiosità: in mezzo ai tanti del cinema scomparsi quest’anno – oltre alla dimenticanza di rapido scatto del 91enne Alain Resnais scomparso ieri – tra i volti dei compianti Peter O’Toole, Harold Ramis, Philip Seymour Hoffman e Shirly Temple appare la sagoma del compositore pesarese Riz Ortolani con tanto di citazione per la colonna sonora di “Mondo Cane”.

Ecco tutti i vincitori

Miglior film: 12 Years a Slave

Miglior attore: Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club)

Miglior attrice: Cate Blanchett (Blue Jasmine)

Miglior regia: Gravity (Alfonso Cuarón)

Miglior attore non protagonista: Jared Leto (Dallas Buyers Club)

Miglior attrice non protagonista: Lupita Nyong’o (12 Years a Slave)

Miglior sceneggiatura non originale: 12 anni schiavo (John Ridley)

Miglior sceneggiatura originale: Her (Spike Jonze)

Migliore film d’animazione: Frozen (Chris Buck, Jennifer Lee, Peter Del Vecho)

Migliori effetti speciali: Gravity (Tim Webber, Chris Lawrence)

Miglior fotografia: Gravity (Emmanuel Lubezki)

Miglior documentario: 20 Feet from Stardom (Nominees to be determined)

Miglior montaggio: Gravity (Alfonso Cuarón, Mark Sanger)

Miglior film straniero: La Grande Bellezza (Italy)

Miglior colonna sonora: Gravity (Steven Price)

Miglior canzone: Let it go (Frozen) Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez


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Messaggio Da anna Lun 3 Mar - 12:07

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Messaggio Da Bellaprincipessa Lun 10 Mar - 10:51

Grazie a Piedonex di Fattore Ics, articolo interessante che dà spunti di riflessione:

ECCO COME E PERCHE’ “LA GRANDE BELLEZZA” DI PAOLO SORRENTINO HA VINTO L’OSCAR

Di Sergio Di Cori Modigliani

…Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier.
Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset.
Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano.
Ma nessuno in Italia lo ha detto.
E’ un prodotto PDL-PD-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota PD di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali -senza Berlusconi- non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).

Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il PD se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della Presidenza Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato). Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema.
O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.
Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/PD oppure non lavorate” chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il PD, in tutt’altri lidi.
I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera.
Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.
Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar.
Per votare bisogna essere iscritti al MPAA (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi. Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del FBI alla fine degli anni’50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno. Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.
Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con Raitre e aveva prodotto un film “Nuovo Cinema Paradiso” che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era, francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo -letteralmente- per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare. Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse “questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore”. Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì. Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: “Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al PCI e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film”. Aveva ragione lui: in Italia funziona così.
24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso.
“La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.
E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale -e quindi menzogna pura- chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori.
E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto.
E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.
Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino, vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2″ per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla -per nessun motivo- aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso. Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che “mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri” spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come “Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi” -cioè il suo produttore- “e usa un linguaggio violento….”. Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s “è un movimento che vuole togliere la sovranità al parlamento”.
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Messaggio Da anna Lun 10 Mar - 13:16

In Italia non esiste niente senza l'appoggio politico ,purtroppo. E sappiamo che gli Oscar hanno poco a che vedere con il solo merito artistico. Detto questo non credo si debba rinunciare a vedere quello che ritengo un bel film
Noi siamo bravissimi a criticare chi ha successo, non altrettanto a metterci in gioco per cercare di cambiare le cose  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 378480 

 Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 103533 grazie per l'articolo a te e a Piedonex
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Messaggio Da ubik Lun 10 Mar - 19:09

sarò franco, l'articolo è scritto in un buon italiano e descrive una realtà che non si fa nessuna fatica a immaginare; detto ciò di fronte a queste contumelie ho sempre l'impressione di leggere lo zoppo che sfotte il guercio  Suspect a cosa serve svelare questa realtà? purtroppo mi riguarda molto ma molto di striscio, e ben poco posso decidere di fare, se non rinunciare ad andare al cinematografo a vedere il film, non guardarlo quando lo trasmette canale 5, non acquistarne il dvd, ....

io ho scelto di guardarlo, in Italia credo si producano un centinaio di film all'anno e ce ne fossero almeno cinque che abbiano un certo valore

La grande bellezza, rivisto di sfuggita in tv, mi è piaciuto di più che la prima volta al cinematografo e, francamente, la parte di critica cinematografica finale dell'articolo di Sergio Di Cori Modigliani non mi convince per nulla  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 30341 

gli americani hanno rifatto dei classici scena per scena (mi viene in mente il rifacimento di Psyco da parte di Van Sant) io trovo interessante l'esasperato citazionismo di Sorrentino (quasi ogni scena è attribuibile a qualcun altro, Fellini, Bunuel, Scorsese, Corsicato, ...) e quello che mi sembrava il difetto sostanziale la prima volta (la mancanza di una storia, le debolezze della sceneggiatura) mi è sembrato passare in secondo piano; inoltre mi è sembrato di trovare dei significati che la prima volta mi erano sfuggiti.

Cioè, questo film non mi è parso un gran che dal punto di vista dell'intrattenimento quanto dal punto di vista dell'accrescimento  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 79629
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Messaggio Da ubik Lun 10 Mar - 21:18

ecco uno che la pensa diversamente e anche lui c'ha i suoi bei limiti, ma dice anche delle cose che condivido

Perché La Grande Bellezza è un capolavoro
By Roberto Cotroneo

Tolgo qualche ora alla scrittura di un saggio dedicato alla creatività perché ho bisogno di spiegare il motivo per cui ritengo La Grande Bellezza un film magnifico. Lo faccio dopo l’assegnazione del premio Oscar al film, e lo faccio il giorno dopo averlo visto al cinema: ormai ero determinato a capire il perché buona parte del mondo intellettuale italiano, spesso sussurrando tra una cena e un aperitivo, lo ritenesse un film brutto e sbagliato, o comunque in ogni caso sopravvalutato. Volevo capire perché si ripetesse come un noioso argomento che quella era l’immagine dell’Italia che piace agli americani. E volevo vedere se fosse mai vero che si trattava di una scopiazzatura di Federico Fellini, e ancora di più se poteva avere un senso un’altra delle tante cose che ho sentito sul film di Paolo Sorrentino: che era costruito per prendere l’Oscar. Come se fosse mai possibile una cosa simile.
Non avevo visto La Grande Bellezza quando uscì per molti motivi. Vado poco al cinema (spesso mi annoiano i film che si producono oggi) e non mi era piaciuto Il Divo, che avevo trovato un film sbagliato, dove il ragionamento estetico sul potere, e la figura di Andreotti, raggiungevano un paradosso che a suo tempo avevo trovato un po’ stucchevole. Insomma avevo trovato Il Divo un’idea molto bella, ma anche un’occasione persa. Per cui non mi si poteva annoverare tra i fan di Paolo Sorrentino, ma neppure tra i detrattori, visto che mi erano piaciuti molto L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. Questo per la premessa.
Ma quando leggo in giro, e quando ascolto in giro giudizi negativi così netti mi insospettisco. Quando utilizzo l’espressione in giro intendo nell’ambiente che mi appartiene, e che conosco assai bene, forse meglio di tutti quelli che dell’ambiente fanno parte. Parlo dei giornalisti, degli scrittori, dei critici e in genere degli intellettuali italiani, che ho conosciuto uno a uno, anche se non li ho mai frequentati molto (non sono salottiero, ho da sempre delle timidezze relazionali che mi vengono da una parte di anima sabauda e provinciale che quasi 30 anni di Roma non mi hanno scrollato ancora di dosso). Così, non essendo riuscito a vedere La Grande Bellezza in televisione, sono andato al cinema. Ancora meglio: niente interruzioni pubblicitarie, concentrazione, e visione degna di quello che chiamiamo spettacolo.
Non mi aspettavo niente, ma una cosa mi balenava per la testa: eccetto Bernardo Bertolucci, non avevo sentito da nessuno parole profonde che mi accendessero una curiosità sul film. Solo banalità distaccate. Per quel poco che conosco Bertolucci non è un uomo che usa l’espressione, «è un film che ti resta dentro», a caso. Ha un uso delle parole che è quello di suo padre Attilio, un uomo meraviglioso, un grande poeta, che sorrideva sempre (a proposito degli intellettuali conosciuti, e di un’altra Italia che non esiste più).
Dopo pochi minuti de La Grande Bellezza avevo capito che mi trovavo di fronte a un film magnifico, scritto per uno spettatore colto, sofisticato, capace di entrare fino in fondo dentro un sogno che scardina tutti i luoghi comuni e le banalità che certo cinema e certo mondo intellettuale propinano da trent’anni. Solo che Sorrentino nella sua fortuna è sfortunato. In Italia non c’è più una classe culturale e giornalistica, un’intellighentia che possa capire un film del genere e apprezzarlo. Esiste solo fuori d’Italia. E infatti lo hanno premiato gli americani, ma non perché hanno visto una certa immagine dell’Italia. Questo film non è sull’Italia, ma è un film sulla religione e sulla morte, sul sesso, sul potere, sulla dissoluzione della storia. E solo Roma poteva permettere questo. L’unica città dove la storia si manifesta in strati sovrapposti, in strati di pietre che cambiano dall’età Augustea al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco fino al periodo Umbertino e al Novecento.
Certo ci voleva coraggio a mettersi a girare un film che non è scritto secondo le regole rimbambite che insegnano in tutte le scuole di regia e sceneggiatura e che stanno mandando all’ammasso il cervello di tutte le nuove generazioni. Ci voleva coraggio a spazzare via con una mirabile battuta qualsiasi impegno politico, qualsiasi riferimento alla nostra sinistra, alla nostra destra, alla politica corrotta, e agli ideali. Jep Gambardella liquida tutto una sera sul suo terrazzo quando spiega a Stefania chi è lei veramente, demolendola. Forse è lì che una parte dei nostri critici binari (ovvero capaci solo di una scarnata dicotomia come: bello/brutto) ha cominciato a sviluppare una certa antipatia per Jep e per Sorrentino.
Davvero scrittori e giornalisti, intellettuali e artisti, sono stati solo degli ininfluenti provinciali affannati a prendersi un po’ di gloria con qualche spinta in Rai, o qualche posto di potere culturale dove compiacere la grande politica, quella che ci avrebbe resi tutti migliori, oltre che compiacere se stessi?
Ho visto ne La Grande Bellezza trent’anni della mia vita. Ma forse anche 50 anni, per quello che 30 anni fa mi raccontavano i più vecchi, quelli che avevano vissuto il dopoguerra, gli anni 50 e 60. Ed era questo. Era il racconto di Sorrentino nel film. In questa Roma struggente, che è struggente per qualsiasi provinciale che ci arriva da fuori (vale per me, per Sorrentino, e ancor di più per Fellini) è come se fosse in atto una dissoluzione che non è solo fisica, non è solo morale (quanta morale, nel cinema italiano, quanto neorealismo camuffato quando ormai si era fuori tempo, quanta pedagogia politica mascherata da arte, bellezza, ed estetica… basti solo pensare a casi come La meglio gioventù) ma è una dissoluzione ancestrale, come se la storia trasudasse comunque da tutto.
Quel Colosseo che incombe non è uno specchietto per gli americani che lo fotografano, e non è il simbolo di una grandezza perduta, è il capro espiatorio, la pietra del sacrificio, il luogo di un martirio che non finisce mai. Ed è il martirio consapevole di una modernità e di una contemporaneità che non è in grado di comprendere perché non c’è niente da comprendere.
Ovvio che Toni Servillo è un grandissimo attore. Ovvio che il film senza di lui non sarebbe immaginabile. Ma non è solo questo. Questo è un film fitto di contaminazioni musicali,  di citazioni. E le citazioni non sono solo quelle felliniane, che i critici binari comprendono subito, ma ad esempio c’è Todo Modo di Elio Petri. Il vero film sul potere che Sorrentino ha girato è proprio La Grande Bellezza, e non Il Divo. Il vero film sul potere del divino e sul mistero originario è questo.
Ho conosciuto il mondo di Jep Gambardella. Non è importante se le feste fossero in quel modo oppure no. La Grande Bellezza non è un film felliniano e non è un film realista. È un film sorrentiniano, perché ormai il termine ci sta. Ho visto quei giornalisti, quegli scrittori, ho ascoltato argomentare in quel modo. Ho visto quei mondi mescolati in epoche diverse. Quando gli anni Settanta avevano appena smesso di bruciare, e sembravamo un paese destinato a fare scuola, e persino ora che non contiamo più nulla da nessuna parte. Sono entrato in case come quelle. Esistono. Ed esistono corridoi che portano sempre là in fondo, a quelle chiavi che aprono giardini e palazzi inaccessibili, a persone che tolgono la camicia e scopri che portano il cilicio, a religiosità strane, sincretiche, eclettiche dentro volti, ruoli, pensieri, azioni e corpi che neanche immagineresti. Ho conosciuto uomini di fiducia e uomini sfiduciati. Ho visto gente capace di mandare al diavolo una carriera per il sesso e gente che con il sesso ha costruito un potere profondo, incancellabile, ma non roboante e volgare, peggio: invisibile. Ho visto candore nel potere e potere nel candore. Vecchiaia repellenti che odoravano di saggezza ma anche di pochezza e di vergogna. Ho ascoltato discorsi tutti uguali per anni, di gente che non sapeva cosa stesse dicendo ma soprattutto perché. E mentre queste complessità si legavano assieme una all’altra, generando una classe di potere nuova e sottile che nulla aveva a che fare con il censo, con la cultura e con le posizioni sociali e professionali, dall’altro lato si creava una nuova semplicità sempre più isolata, che andava a occupare caselle che non interessavano più a nessuno.
È quello che si vede nel film. Le attricette che valgono sempre più dei ruoli che vengono loro offerti, gli attori che assomigliano alle pubblicità di Dolce e Gabbana, gli scrittori che sembrano degli sceneggiatori che si sono persi il produttore, e i produttori che guardano alla crisi e investono in commerciabilità e semplicità. Le fiction morali, i fotoromanzi dei nostri giorni rivolti a shampiste e intellettuali, dove l’eroismo è semplice, la storia è lineare, dove vincono i buoni, e l’olezzo dei cattivi non arriva da nessuna parte. E attorno a questa roba c’è un mondo di uffici stampa, di parole, di feste, di eventi, di visibilità, ma soprattutto di oscenità nel senso della messa-in-scena che nessuno è stato capace di girare come Sorrentino.
A Paolo Sorrentino sono bastate un paio di feste per chiudere l’argomento. Altri ci avrebbero girato un film intero, e inutilmente. Lui invece torna di continuo a quelle fontanelle sul Gianicolo, quei luoghi di clausura che intravedi, e dove non entri, il sogno dell’hortus conclusus.
Non c’è la bellezza in questo film. Non ci sono attrici strepitose, modelle scelte con la lente di ingrandimento, prelevate direttamente dalle campagne dei sacerdoti di questa dissoluzione: gli stilisti, o se preferite, i sarti. La più bella è Ramona, Sabrina Ferilli, che ha 50 anni. E muore di una malattia che non si sa, che non può curare.
Ai critici ha dato fastidio che Sorrentino non abbia puntato il dito su ogni cosa, non abbia indicato il nemico culturale e politico, non abbia raccontato con il plot. I critici non hanno capito che nella Roma a strati lui sta un po’ più sotto di loro, verso i riti più antichi, verso il punto originario di tutto. E per loro i giusti tributi a quella che è l’influenza, la tradizione culturale non è altro che «fare il verso», come dicono loro. E invece non è un verso, è un proseguire in un discorso che inizia dal Rossellini de La presa del potere di Luigi XIV, continua con il Fellini romano, prosegue con Petri, sia con Todo Modo e sia con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ai critici non interessa che in Toni Servillo c’è un superamento di Gian Maria Volontè. Nel senso che da Volontè prende il registro paradossale e grottesco, ma arriva là dove quei tempi ideologici non potevano consentire. Arriva a René Girard, arriva alla Roma nera, antipositivista, reazionaria. Arriva allo sberleffo della Commedia dell’Arte. Mette l’orologio della storia prima della nascita dei partiti di massa, della Psicologia delle folle di Gustav Le Bon. Guarda fino ai boschi sacri dei dintorni di Roma, fino a una religiosità pagana dove i miracoli e le apparizioni sono un chiacchierare sommesso, profondo, di una città che non si è mai dimenticata di aver stampato le opere magiche di Giordano Bruno, quelle di Girolamo Cardano, e aver dato asilo, in ogni caso, al meglio degli irrazionali, dei maghi, degli alchimisti, degli stregoni e naturalmente degli imbroglioni che l’Europa potesse vantare.
In quelle vecchiaie sdentate de La Grande Bellezza non c’è bellezza, come non c’è bellezza in quelle feste, in quei personaggi patetici e stanchi, in quella via Veneto deserta che abbiamo visto tutti. E tutti, passandoci di notte, quando non non arrivano echi di niente, se non sguardi ammiccanti di buttadentro che sperano tu sia un turista buono per locali da lap-dance, abbiamo ricordato intere sequenze della Dolce Vita come servissero a scaldarci da quel gelo.
Non è quello che si è perduto a preoccuparci, è quello che è rimasto comunque ad affascinarci. E Sorrentino a farcelo entrare nella testa, a lasciarcelo dentro, come dice Bertolucci, è di una bravura stupefacente. Non ho usato il verbo raccontare, e l’ho fatto di proposito. Un’altra caratteristica del critico binario, del produttore binario, del capo delle fiction binario, del regista binario è questa: hai una storia da raccontare? Se hai una buona storia… Questa storia a un certo deve avere una svolta… Sorrentino non racconta storie, ti inietta il penthotal. E poi sono fatti tuoi. Il film non ha svolte. Mentre lo vedevo mi chiedevo se non potesse essere montato in cento modi diversi, se ogni dettaglio non valesse in sé. Come se l’anima del film potesse resistere a tutto, soprattutto ai precetti idioti che si trasmettono con religiosa competenza alle nuove generazioni: il ritmo, la svolta, la messa a fuoco dei personaggio, le sottostorie che nei film ci devono essere. E via dicendo. Non mi stupirebbe se qualcuno mi dicesse che nessuno ha mai scritto questa sceneggiatura. E non mi stupirebbe se Sorrentino un giorno dichiarasse: ho fatto questo film per raccontare Roma, la morte, e il vuoto. Punto. Come Eco raccontò di aver scritto Il nome della rosa perché voleva «avvelenare un monaco».
Che poi un film così complesso, che non può essere visto una sola volta, sia piaciuto all’Academy (e non solo a loro) è la dimostrazione che siamo noi dei provinciali. Noi che ancora pensiamo, attraverso un’ideologia bolsa e trita che ancora resiste anni e anni dopo la fine delle ideologie, che «gli americani» sono dei semplicioni, banali, capaci di vedere l’Italia come una cartolina svampita. Quando è sempre stato l’opposto: un tempo come oggi. Ma si sa, le nostre cattedre di storia del cinema nelle università erano quasi sempre tenute da gente che non andava più a ovest di Miklós Jancsó, e chi sa di cosa parlo capisce quel che dico.
In questo film sul vuoto, sul divino che alle volte sembra andarsi a svilire in una bellezza scheggiata, consumata dal tempo, in questo lungo viaggio dentro una perdita di identità che sta nelle cose, e non potrebbe essere altrimenti, oltre questa rassegnazione alla pochezza, non resta niente. Non resta la vita com’era, il diario della vecchia fidanza di Jep, la povera bellezza di Ramona, la grottesca potenza di Dadina, l’ipocrisia di Stefania, e via dicendo. Niente resta perché niente doveva restare. Neppure il mafioso del piano di sopra riesce a resistere. Solo quello spettacolo, fuori da quel terrazzo, di quel Colosseo che non è affatto l’Anfiteatro Flavio come tutti credono. Ma un luogo spolpato dalla storia, privato dei marmi, crollato per i terremoti, dimenticato, abitato da famiglie nobiliari che ci costruirono dentro case poi demolite, restaurato alla meglio perché non crollasse. Un luogo che è antico, ma è anche ricucito come si è potuto, immaginario di un passato, monumento che non ha neppure la forza di sorreggersi da solo. E soprattutto luogo sinistro, di sacrificio e perdizione. Così muore la carne, titolava Samuel Butler un suo grande romanzo postumo, sul sesso, sulla trasgressione, un testo contro la sua epoca, l’epoca vittoriana. E Così muore la critica in questo italianissimo vittorianesimo culturale in cui viviamo, dove lo scandalo è nelle idee, e non nella dissoluzione; dove ci si vergogna ad argomentare e a rompere le righe più che a praticare pubblicamente una fellatio.
Sorrentino ha girato un film che è un punto di partenza per tutti quelli che avranno coraggio e avranno voglia di ricominciare davvero. Ha segnato l’anno zero dei prossimi tempi. E non posso che ringraziarlo per tutto questo.

fonte
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Messaggio Da anna Lun 10 Mar - 21:27

ubik ha scritto:

 e quello che mi sembrava il difetto sostanziale la prima volta (la mancanza di una storia, le debolezze della sceneggiatura) mi è sembrato passare in secondo piano; inoltre mi è sembrato di trovare dei significati che la prima volta mi erano sfuggiti.

Cioè, questo film non mi è parso un gran che dal punto di vista dell'intrattenimento quanto dal punto di vista dell'accrescimento  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 79629
Questa è una caratteristica di Sorrentino che mi piace, se rivedi un suo film trovi sempre qualcosa di nuovo, di diverso, che ti era sfuggito. Almeno a me succede così. Non sarà il suo miglior film ma credo abbia più livelli di lettura che a me non dispiacciono. Come ho avuto occasione di dire in questi giorni di grandi discorsi, mi avvicino spesso con circospezione, a volte diffidenza, ai suoi film, ma alla fine sono sempre contenta di avrli visti
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Messaggio Da Bellaprincipessa Mar 11 Mar - 9:53

grazie per l'articolo Ubik.

Io, da parte mia, trovo utili e interessante, a livello generlae, conoscere in parte alcuni meccanismi politico economici che stanno dietro alle produzioni culturali che ci vengono proposte.
Mi aiuta a contestualizzare, me ne fa capire alcuni ingranaggi.
Poi, questo non toglie valore al prodotto. Non ho detto di condividere in toto l'articolo che ho postato, ho detto solo che lo ritenevo un interessante spunto di riflessione.

Per quanto riguarda la critica postata da te, anche in questo caso ne condivido alcune parti. Mi piacerebbe rivedere il film, ma su grande schermo. Visto in tv, schiacciato dal 6/8 a casa in montagna, molte cose sono certa che si sono perse...

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Messaggio Da ubik Mar 11 Mar - 22:33

il meccanismo che sta dietro all'operazione oscar a La grande bellezza mi sa che è solo la punta dell'iceberg  Suspect 

per alcuni versi, per me, comunque più comprensibile di quella dell'oscar a Benigni per La vita è bella, un film che non mi piacque affatto (recitazione di Roberto a parte  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 561231 )

e se proprio devo tirare le somme riesco persino a credere che in fondo uno dei risultati di questo premio è stato dare, se non lustro, almeno un po' di visibilità internazionale a questa ormai poverissima Italia

quello che comprendo molto meno invece sono le decine di film prodotti ogni anno in Italia, con denaro pubblico, che escono in sala un giorno, due giorni e, a volte, non escono nemmeno  What a Face e che spesso sono girati dal figlio di, il nipote di, la nuora di, etc etc etc

quanto a Cotroneo, trovo affascinanti alcuni significati che attribuisce al film; non lo conosco e da come parla di sé mi sembra un po' tromboneggiare, alla fine mi fa un po' effetto Ruggiero a sanremo  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 561231 bravo, una palla ma bravo  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 378480 

a proposito della Ruggiero, il concerto agli Arcimboldi con la PFM è stato molto bello  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 79629 appena ho un momento vi racconto qualche cosa  Il Cinema sulla stampa - Pagina 16 30341
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