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Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
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Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
Grasssie assaie per le immagini evocative :pollicesu:
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Prima di continuare, a proposito di Guccini, non sono riuscita al momento a ricostruire quanto ricordavo sopra, ma ho trovato online alcuni riferimenti a Guccini come partecipante a Improvvisazioni poetiche a ottave ...
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Prima di continuare, a proposito di Guccini, non sono riuscita al momento a ricostruire quanto ricordavo sopra, ma ho trovato online alcuni riferimenti a Guccini come partecipante a Improvvisazioni poetiche a ottave ...
http://www.provincia.pistoia.it/sentieriacustici/
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
Data inserimento: 12 Dicembre 2009
Poichè nel secondo dopoguerra, uno dei filoni piu' vivaci ed innovativi fu quello che si esprimeva utilizzando il dialetto napoletano/siciliano, mi sembra quantomeno doveroso citare alcuni tratti della canzone napoletana che specie fuori d'Italia (nei paesi di arrivo delle migliaia di emigranti che in piu' periodi lasciarono il nostro paese specie tra la fine dell'800 e la metà degli anni 50) spesso è stata totalmente identificata con la canzone italiana.
Sulle origini e la diffusione della canzone napoletana
In Spoiler, riporto una breve storia della canzone nap..
http://www.interviu.it/canzone/feste/piedigrotta.htm
di Ferdinando Porcelli e Rosaria Maggio
La ricostruzione di una Piedigrotta ci offre l'opportunità di mostrare l'articolazione territoriale, economica, organizzativa di una festa che a partire dagli anni intorno al 1880 cominciò a cambiare fisionomia, trasformandosi dapprima in momento di diffusione delle canzoni che annualmente gli editori musicali rendevano pubbliche tramite giornali e riviste, quindi in un momento pubblicitario per merci e per nuovi modi di consumare, ed infine definì un nuovo uso del territorio, divenendo un momento in cui la città metteva in scena se stessa e quelle che voleva definire come le sue caratteristiche e potenzialità.
Il modello della Piedigrotta delle canzoni funzionò per l'ideazione delle Feste Estive che nel 1894, proprio l'anno precedente quello da noi prescelto, furono promosse e finanziate per la prima volta dall'Associazione Commercianti, sostenuta dalla stampa cittadina, in collaborazione con le autorità comunali e con il Banco di Napoli.
Le Feste Estive consistevano in un fitto programma di gare sportive, spettacoli, esposizioni, concerti, tornei che duravano da luglio a settembre per culminare nella annuale celebrazione della Piedigrotta. In quest'ambito gli stabilimenti balneari e quelli termo-minerali, i café-chantante i ritrovi più eleganti organizzavano speciali programmazioni di spettacoli; si predisponevano calendari di gite nel golfo; la Villa Nazionale, Piazza Plebiscito e la Galleria Umberto ospitavano quotidianamente concerti gratuiti; i comuni vesuviani preparavano i loro "trattenimenti e svaghi estivi"; la Società Nazionale delle Strade Ferrate e la Navigazione Generale d'Italia concedevano particolari agevolazioni per il prezzo e la durata dei biglietti dei viaggiatori diretti a Napoli.
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Anche la festa di Piedigrotta del 1895, dunque, si inscriveva nell'ambito delle Feste Estive che ne rappresentavano in qualche modo l'enfatizzazione e l'ampliamento. In questo secondo anno, le feste ebbero carattere di particolare ricchezza e il loro programma, oltre a essere diffuso come già l'anno precedente tramite quotidiani e periodici, fu oggetto di un opuscoletto particolarmente curato: la Guida Programma Ufficiale per le Feste Estive che - oltre a una breve sezione di letteratura amena - racchiudeva indicazioni utili come gli orari di treni e battelli da e per la città. In più, il Comitato Generale delle Feste Estive, di cui facevano parte eminenti personalità cittadine, letterati, musicisti, poeti, commercianti e industriali e che si avvaleva di sovvenzionamenti privati e comunali, aveva fatto pubblicare dall'editore Tocco un volume dal titolo Napoli. Storia, costume, igiene, clima, edilizia, risanamento, industria redatto anche da medici, igienisti, scienziati, in cui si elogiavano le attrattive climatiche, paesaggistiche, storiche e di costume della città.
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Nel recinto della Villa durante la settimana di Piedigrotta - dunque nuovi e diversi motivi di piacere si sommavano a quelli cui i napoletani erano già stati abituati durante tutta l'estate: il 4 settembre ebbero luogo i quadri viventi - Nerone che assiste all'incendio, Apollo e le nove muse e Un duello dopo il ballo, ispirato quest'ultimo a un quadro di Gerome - per la scenografia del conte Antonio Coppola. Oltre al diletto per gli spiriti raffinati costituito dai quadri viventi, si pensò anche allo svago per le anime semplici, rappresentato dagli alberi della cuccagna, eretti in Villa 1'8 settembre.
Ma Piedigrotta non sarebbe stata completa senza le sfilate. Nel 1895 se ne tennero tre: quella dei carri, quella dei giornalai e la grande fiaccolata dei Tre regni della natura e le grandi invenzioni.
La sfilata dei carri era organizzata anch'essa nella modalità del concorso. I carri sfilarono attraverso la città per due volte: nella mattinata e nella serata del 7 settembre su un percorso che partiva dal Museo Nazionale e, lungo via Toledo, raggiungeva Piazza Plebiscito, quindi Santa Lucia, il Chiatamone e infine il recinto delle feste della Villa, dove i figuranti e i musicisti dei carri replicarono per due volte le loro canzoni. I carri furono 19, le canzoni qualcuna in più perché - come ad esempio sul carro Café Chantant sul quale si cantarono Café Chantant e 'A novità di Gabriele Marra - su alcuni carri si eseguirono più canzoni. Con 150 lire furono premiati (1° premio ex aequo) i carri Il voto (canzone 'O Vuto di Federico Cozzolino e del M° Albin, eseguita dagli eccentrici del S. Carlino); I Molinari alla festa (canzone Friccecarella di Nicola Marfé e Carmine Marino); Cesta di fichi (canzone So' d"o ciardino overo di Luigi Russo e Enrico Caino). Con il secondo premio ex aequo furono inoltre premiati i carri: Costumi napoletani, Carro Campestre, Corbeille, Pacchiani sul somaro.
Come si vede, in questa fase della festa la trasformazione del carro da mezzo di trasporto dei pacchiani dei casali e dei paesi limitrofi per il pellegrinaggio alla Madonna di Piedigrotta (quei carri su cui si cantavano le tammurriate e i canti 'a ffigliola in onore della Vergine) in carro allegorico stava avvenendo abbastanza lentamente. Prevalevano, infatti, gli allestimenti facilmente ottenibili con modeste modifiche ai carri agricoli di tipo tradizionale............
Ad attendere cavalcata e carri, una giuria formata, fra gli altri, da Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Eduardo Matania, Enrico De Leva, Roberto Bracco.
Tutti i costumi erano forniti dalla ditta Falanga, le armature da Salvatore Giuliano (noto armiere teatrale), le attrezzature dalla ditta Tammaro Mangini e i cavalli della ditta Forgione. Le forze economiche e commerciali cittadine - oltre che procurare forza lavoro intellettuale e organizzativa, e sostegno economico alle iniziative - svolgevano un ruolo nella produzione della festa anche nella offerta gratuita di merci, costumi e attrezzature per le principali messe in scena.
...............................
Ma gli eventi più attesi, quelli che si prevedevano più seguiti, erano naturalmente i concorsi delle canzoni: al solo concorso del Ciardino delle Feste, bandito dal Comitato per le Feste Estive, parteciparono oltre cento canzoni. Ma il numero delle canzoni che furono scritte quell'anno in città è senz'altro più imponente (4).
Concorsi di canzoni furono promossi dai giornali Napoli Musicale e Diavolo Rosso e dall'impresa del teatro Grande Esedra; vi fu un concorso Fiorillo (presumibilmente bandito dai proprietari del ristorante Ai Due Leoni in piazza Municipio), uno indetto dal Circolo Musicale Fenaroli (quest'ultimo - secondo il Roma del 6 settembre - patrocinato anche da Il Mattino); un concorso ebbe anche la casa editrice Pisano, il cui negozio di musica era in Via Toledo, e naturalmente vi fu quello che Bideri lanciò attraverso la sua rivista La Tavola Rotonda. Ricordi, invece, non bandì - né era sua abitudine - alcun concorso, limitandosi a presentare in più occasioni e in diversi luoghi la sua produzione per quell'anno: produzione già stampata in un elegante volumetto di soli testi, illustrato da Scoppetta e intitolato Chi chiagne, chi ride. Canzoni furono pubblicate inoltre su tutti i principali giornali quotidiani e periodici: dal Roma, all'Occhialetto, dal Don Marzio, al Fortunio, da 11 Mattino a Le Varietà. Canzoni vennero eseguite in vari giorni, diverse occasioni e in più luoghi. Il Giardino delle feste in Villa Nazionale il 5 e 6 settembre ospitò l'esecuzione delle circa venti canzoni selezionate dal concorso del Comitato per le Feste Estive; fra gli interpreti, Diego Giannini e Emilia Persico. In questo concorso l'editore Santojanni fu particolarmente favorito dalla sorte (e dalla giuria) e portò al successo tre sue canzoni - Ndringhete ndrà! di De Gregorio e Cinquegrana; Girulà di Califano e Nutile; 'E Cataplaseme di Capurro e Di Chiara, tutte pubblicate da L'Occhialetto - che si aggiudicarono primo, secondo e terzo premio.
Al Gran Circo delle Varietà, al Chiatamone, il 1 settembre ebbe luogo il concerto del M Vincenzo Galassi, esecuzione delle canzoni di Piedigrotta delle edizioni Ricordi. I solisti furono Maria Masula, Nunziatina Lombardi, Raffaele De Rosa, Giuseppe Giusti. Furono eseguite canzoni di Vincenzo Valente, Mario Costa, Enrico De Leva; fra gli autori dei testi Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
All'Eldorado- stabilimento balneare di giorno, ritrovo elegante di sera, inaugurato il 16 luglio 1894 a Santa Lucia di fronte a Castel dell'Ovo il 1 settembre ebbe luogo l'audizione delle canzoni del concorso de La Tavola Rotonda: fra gli interpreti Amelia Faraone, Emilia Persico, Nicola Maldacea, Ciccillo Mazzola. La canzone vincitrice fu Don Saverio di Vincenzo Valente e Pasquale Cinquegrana, nell'esecuzione di Nicola Maldacea. Altri premi furono assegnati a 'O frate 'e Rosa (ed. Santojanni) di E. Di Capua e P. Cinquegrana; Venezia benedetta! di G.B. De Curtis; I' voglio bene a te di S. Gambardella e P. Cinquegrana; I' só franco 'e cerimonie di P. Guida, G.B. De Curtis; Cerasella di A. Califano e P. E. Fonzo; Crestina 'e Mondragone di A. Mancini e P. Cinquegrana.
Ma le esecuzioni di canzoni non si fermarono qui: al Teatro Sannazaro, in via Chiaia, il 4 settembre si svolsero le prove generali delle canzoni del concorso delle Feste Estive; sotto le finestre del Corriere di Napoli ebbe luogo il concerto-serenata 'E bellezze 'e Napule, diretto da Nicolò Evangelista; al Circolo Musicale Fenarolisi cantò Fatte vasà di Paolino Stefanile e A.F. Alfano; fra il 12 e il 16 senembre in Piazza Plebiscito e al Caffè Gambrinus si replicarono più volte le canzoni di Ricordi; il 26 settembre in Galleria Umberto 1°, al Caffè Starace (divenuto poi nel 1899 Caffè Calzona) quelle de La Tavola Rotonda.
La canzone era, dunque, il momento centrale delle festività piedigrottesche; tutto il complesso sistema editoriale, spettacolare, organizzativo, distributivo e di consumo che ad essa faceva capo - nel suo sforzo di utilizzare i linguaggi e le risorse cittadini in modo nuovo e per nuovi fini aveva provocato profondi cambiamenti nella festa tradizionale: erano nati nuovi riti, nuovi "pellegrinaggi", nuove mete per le feste settembrine.
.....................
Di conseguenza si accrebbero la complessità della festa, la sua articolazione e naturalmente aumentarono la specializzazione, la divisione del lavoro, la gerarchizzazione degli apparati e delle organizzazioni che presiedevano alla sua preparazione. E aumentò l'importanza economica della festa stessa, e non solo per i visitatori che essa portava a Napoli, o perché a partire dalla Piedigrotta gli editori musicali prendevano il via per "esportare" le loro canzoni anche nel resto d'Italia e del mondo. Carri, fuochi pirotecnici, sfilate, fiaccolate, palchi, pedane, chioschi, recinti nascevano dal lavoro di ideatori, organizzatori, finanziatori, architetti, scenografi, impresari, ma anche da quello di sarti, fuochisti, carpentieri, artigiani, decoratori; le canzoni erano il frutto della creatività di autori, musicisti, illustratori, dello spirito imprenditoriale degli editori, ma richiedevano l'impiego di compositori, tipografi, piegatori, spedizionieri: Piedigrotta era una grande occasione di lavoro - e richiedeva un'alta qualità di lavoro - per molte persone.
1 Notizie tratte dal Fortunio, 10 luglio 1895, 20 luglio 1895
2 Notizia tratta dalla Guida programma ufficiale delle Feste Estive, Napoli, Tocco, 1895.
3 Tutte le notizie del paragrafo sono tratte dal Fortunio, Don Marzio, Roma, Il Pungolo Parlamentare, Corriere di Napoli, Il Mattino, L'Occhialetto, La Tavola Rotonda dei giorni fra l'1 e il 15 settembre del 1895, confrontate e incrociate fra loro.
4 L'elenco riguarda solo le canzoni di cui si sono travati gli spartiti o quelle della cui esecuzione si è appresa la notizia tramite la consultazione dei giornali. Il numero delle canzoni effettivamente eseguite e satmpate potrebbe, dunque, essere più grande di quello indicato.
Tratto dal catalogo: Piedigrotta 1895-1995
Progetti Museali Editore, Roma 1995
Copyright (c) 2001 [Interviù]. Tutti i diritti riservati.Web Master: G.C.G.
Poichè nel secondo dopoguerra, uno dei filoni piu' vivaci ed innovativi fu quello che si esprimeva utilizzando il dialetto napoletano/siciliano, mi sembra quantomeno doveroso citare alcuni tratti della canzone napoletana che specie fuori d'Italia (nei paesi di arrivo delle migliaia di emigranti che in piu' periodi lasciarono il nostro paese specie tra la fine dell'800 e la metà degli anni 50) spesso è stata totalmente identificata con la canzone italiana.
Sulle origini e la diffusione della canzone napoletana
In Spoiler, riporto una breve storia della canzone nap..
- Spoiler:
La CANZONE NAPOLETANA ATTRAVERSO I SECOLI
Non sarà, forse, del tutto superfluo ricordare che si è in molti ad affermare che, soltanto con la presenza della canzone napoletana nel contesto della produzione canora italiana, viene consentito di avviare un discorso sull’esistenza di una canzone nazionale, cioè con caratteri e moduli propri.
Al riguardo, poiché non è il caso di svolgere su queste pagine ragionamenti di tal fatta, mi sia consentito di commentare, sbrigativamente, che se promozione da cantata regionale a canto nazionale rappresentativo c’è stata, questa, la canzone napoletana se l’è guadagnata; dapprima lentamente e poi, negli anni a cavallo dei due secoli, velocemente e con clamore, in virtù di un’autonomia di mezzi espressivi insorgenti dalla possibilità, per la forma musicale, di mutuare direttamente dal dialetto proposte tematiche, sollecitazioni fantasiose, suggerimenti di immagini, abbandoni lirici.
In partenza non c’è, tanto per essere chiari, nessun diaframma fra testo e musica; il resto, ovviamente, appartenendo alla sensibilità di chi scrive o compone. Si può dire, con meditata valutazione, come alla radice della canzone napoletana, in quanto significazione di fatto artistico, ci sia davvero coerenza di linguaggio, parole e musica che alla fine diventano un’invenzione armonicamente unitaria, epperò di stampo originale.
Per la strutturazione e le risorse del dialetto da cui prende vita, la canzone napoletana ha, in embrione, la virtù di non essere mai generica ancorché - come tutti i componimenti del genere - in pochi versi. Non ci sono incongruenze verbali, sia che si parli di episodi sentimentali e poetici, sia che si adombri una dimensione psicologica, oppure si tratteggi una situazione comica o grottesca.
Le metafore sono genuine, le similitudini nitide, l’eufemismo malizioso e l’ironia tagliente; una ricchezza di corde a petto dalla quale il compositore è pungolato nel suo estro migliore. Che io sappia, altrove, tanto più per la canzone in lingua, è compito alquanto ardimentoso giungere a formulare osservazioni analoghe. Una verifica, questa, che chiunque può fare, proponendo all’ascolto di un ignaro straniero, un gruppo di canzoni nostrane, tra cui una di Napoli, e, non necessariamente, ’O sole mio oppure Torna a Surriento. Ebbene, noterà che la canzone napoletana sarà riconosciuta subito, e chiaramente indicata nella sua provenienza, mentre le altre - gradevoli o meno, non ha importanza continueranno a conservare l’anonimato.
Insomma, tutto porterebbe a concludere - se il discorso potesse avere un seguito - che ha mille canne di ragione chi afferma che soltanto nella canzone napoletana è identificabile la nostra canzone nazionale.
Questa breve premessa, nelle mie intenzioni, dovrebbe apportare sostanza all’atto di fede che ho manifestato a chiusura dell’avvertenza e conferire decoro ai ragguagli che mi accingo a dare intorno al «bel canto» di Napoli.
Quanto abbiano influito le civiltà greca e latina su Napoli, è riscontrabile nei frammenti di opere venuti alla luce attraverso secoli di pazienti e, spesso, avventurose ricerche. Nella maggioranza dei casi, abbiamo soltanto delle tracce, ma, tanto significative, da consentire illecito perseguimento della ricostruzione di sistematici ricordi storici.
I canti greci, d’amore o satirici, politici o religiosi, mandavano in visibilio aristocrazia e popolo, specialmente se inseriti in rappresentazioni teatrali; quelli romani non furono da meno, se ascoltandoli - come scrive il Polidoro - «Tito Livio e Virgilio si erano sempre commossi».
E Napoli li assorbì con tanta passione, questi canti, e tanti ne creò, da venir considerata la città più musicale della Campania e più di Roma stessa, cosicché nell’anno 63 d. C. Nerone Imperatore ritenne confacente alla sua dignità l’esibirsi davanti ai napoletani accompagnandosi con la cetra.
Di quei canti non si hanno più segni se non, forse, attraverso le voci dei venditori, qualche brano di arie popolari antiche e i «canti a figliola», le cui «fioriture e melismi vi richiamano al canto fermo».
Nel primo millennio dell’Era Cristiana, in tutta Italia, si cantava su testi latini, molti dei quali sono conservati nelle biblioteche d’Europa.
Erano divisi in due gruppi: quelli per persone altolocate e colte, che parlavano di battaglie, di regnanti, di avvenimenti; e quelli creati per il popolo, con sfondi diversi: l’amore, la satira, la lussuria, la licenza grossolana.
IL DUECENTO
Qui abbiamo i primi, convincenti segni della presenza della canzone napoletana. Trascuriamo pure quanto vien riportato ne’ cc Le cronache di Matteo Spinelli» a proposito del Re Manfredi che «la notte asceva per Barletta cantando strambotti et canzone», perché il riferimento, sebbene ripreso da quasi tutti gli storici della canzone napoletana, è stato oggetto, e lo è tuttora, di accesa polemica fra illustri scrittori impegnati vanamente ad accertarne o negarne l’autenticità.
E’ accettabile, invece, la versione secondo la quale, nei primi decenni del ‘200, mentre Federico Il radunava intorno a sé uomini d’ingegno e artisti, dalle balze del Vomero si levava un canto semplice, una invocazione, ricca di reminiscenze deistiche, all’astro che dà vita al giorno:
Jesce sole, jesce sole,
nun te fà cchiù suspirà!
Siente mai ca li figliole
hanno tanto da prià?
E’ l’invocazione delle prosperose lavandaie di Antignano, osannanti la bellezza dell’Infinito ed il lavoro.
Ovviamente, i versi citati sono giunti a noi attraverso aggiornamenti cui hanno messo le mani chissà mai quante persone.
IL TRECENTO
Del ‘300, una testimonianza sull’esistenza della nostra canzone potrebbe essere quella che il Boccaccio dà nel «Decamerone», il «Filocolo», «Fiammetta» e le «Rime». Senonché, qualche studioso, giustamente si è chiesto di quali canzoni intendesse parlare il Boccaccio, cioè se in lingua oppure in dialetto.
Il grande novelliere fiorentino rievocando il suo lungo soggiornò a Napoli, dove si è innamorato della figliuola di Re Roberto incontrata per la prima volta nella Chiesa di S. Lorenzo, mostra il suo entusiasmo per la città e fa intravedere che da essa trae ispirazione per le sue opere. Qui, come è noto, scrive ad un suo amico persino una lettera scherzosa in dialetto napoletano. Nei suoi libri, infatti, parlerà del nostro mare, dei castelli, della reggia e rievocherà le canzoni ascoltate durante le gite nel golfo. Ma oltre le canzoni e un canto fanciullesco in dialetto ricordati dal Boccaccio, un certo numero di strofe e frammenti sono pervenuti a noi. I nomi dei loro autori, però sono rimasti avvolti nel mistero, mentre sono alquanto noti i nomi di alcuni degli autori dei componimenti in lingua.
IL QUATTROCENTO
Il ‘400 porta importanti innovazioni, anzi sconvolgimento, nella musica seria a Napoli e, per riflesso, anche nella canzone.
Intorno alla Corte Aragonese, per merito di Re Alfonso, rifiorivano le arti belle; dappertutto, in Italia, le Corti incoraggiano poeti e artisti. E quando, per volere di Alfonso, il dialetto fu elevato a lingua del Regno, strambotti, madrigali, ballate, frottole, sonetti, si cominciarono a scrivere in napoletano.
La frottola - canzone a ballo importata da altre regioni - era già in voga in tutta Italia, e qui da noi, nella seconda metà del quattrocento, sostituì la ballata, così come lo strambotto, anch’esso d’importazione, sostituì il sonetto.
Il madrigale, noto in tutta la penisola sin dal secolo precedente, si trasformò, prese nuove forme per merito di musicisti colti, e continuò a trasformarsi fino a diventare un genere squisitamente aristocratico.
Nel 1458, Ferdinando d’Aragona, per dare maggiore impulso alla musica, invitò a Napoli un gruppo di maestri stranieri «d’altissimo pregio», fra cui il Tinctoris, l’Ykart, il Garnerius; il primo, oltre a pubblicare importanti metodi musicali, fu Cappellano e maestro di Cappella in Castelnuovo; il secondo, fu cantore nella stessa Cappella dal 1480. Si fondò la prima scuola musicale e attraverso di essa la musica napoletana subì una radicale trasformazione. «L’influenza fiamminga - scrive il Prota-Giurleo - si riflette per conseguenza anche sulla musica vocale, che diventa polifonica, sempre più complessa e difficile; musica da signori; il popolo resta fedele alla monodia e continua a cantare nella sua lingua, come il cuore gli detta».
I musicisti classici ora si dedicano completamente al madrigale, ne compongono per tutte le occasioni, finché esso - a distanza di due secoli - non sfocerà nel melodramma.
I musicisti meno classici si dedicano, invece, a un genere nuovo: la villanella, che, a distanza di pochi anni, invaderà l’Italia e l’Europa.
Una trasformazione, questa, che se da una parte accende entusiasmi, dall’altra suscita, attraverso la voce di un anonimo autore di un «gliuommero», rimpianti per le canzoni del tempo passato:
. . . . . . . . . . . . . . .
quelle dance retonne - et lo cantare
faceano allegrare - sta citate.
IL CINQUECENTO
Il ‘500 è un secolo d’oro per la canzone napoletana.
Sono gli ultimi guizzi di vita per la frottola e lo strambotto; è in gran voga il madrigale, allorché scoppia la passione per un nuovo genere di canzone: la villanella. Derivata da un ballo campestre, la nuova composizione entusiasmò dapprima il popolo; poi, man mano, entrò nelle case aristocratiche, interessò musicisti raffinati che, attraverso testi in lingua, la trattarono tecnicamente alla stregua del madrigale, badando molto all’armonia e usando senza eccezione lo stile polifonico. La villanella penetrò in tutte le regioni d’Italia, varcò i confini, e fu imitata e stampata ovunque con la definizione di villanella alla napoletana. Da allora, la nostra canzone dominò da sovrana e non ebbe che una sola rivale, sia pure con un dominio meno vasto: la canzone spagnola.
Una prova che la villanella fu conosciuta e apprezzata anche in Francia, ce la dà Benedetto Croce nei suoi «Aneddoti di varia letteratura» - Vol. I. Nel capitolo «Isabella Villamarino» narrando alcuni episodi del nobile marito di questa dama napoletana, Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, autore di poesie e canzoni, sia per i versi in italiano che per la musica, ch’ebbero molta fortuna in Italia, in Francia, e in Ispagna, rileva che il Principe nel 1544-45 in Fontainebleau «si era fatto ammirare dalle dame della corte come cantante» e pubblica un brano di rapporto dell’inviato fiorentino, il Vescovo di Forlì, Bernardo dei Medici, spedito a Cosimo I dei Medici, a Firenze, nel dicembre del 1544: « Ogni sera molte dame li fanno cantare delle canzoni napolitane et ci hanno indocte una quantità di chitarre et ogni dama ha la sua».
A Napoli, addirittura, non si cantavano che villanelle; nei salotti e nelle accademie, in forma polifonica, e cioè a due, a tre, a quattro voci, in coro; per le strade, le piazze, le rive, le osterie, con accompagnamento di strumenti vari, in forma monodica. E, specie in piazza Castello, i cantori richiamavano gran folla di appassionati.
Per il nostro golfo, comitive di gitanti in barche e feluche - zeppe di popolani le prime, ospitanti gentiluomini e gentildonne le seconde - usavano cantare le nuove villanelle, nelle ammalianti insenature di Posillipo.
Spesso allietavano le comitive complessi musicali e cantanti di professione, svolgendo un vero e proprio programma.
I poeti dialettali Giambattista Basile, Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio, ed altri, hanno lasciato molti titoli o frammenti di versi di villanelle in voga nel ‘500; Giovan Battista Del Tufo, nel suo manoscritto «Ritratto di Napoli», recentemente pubblicato a cura di Calogero Tagliareni, ne elenca molte altre. Dobbiamo ritenere, secondo le sue citazioni, che a Napoli, alla sua epoca, erano popolarissime - fra quelle italiane e in dialetto - oltre trenta villanelle.
Alcuni titoli: Parzonarella mia, parzonarella, Se vai all’acqua, chiammarne, commara, Tu si de Nola et io de Marigliano, Guarda de chi nie iette a nnarnmorare, Sciosceme ‘ncanno lo napulitano, Oh bella, bella, mename nu milo, O quanta sciore o quanta campanelle, Russo meiillo mio.
Grande importanza avevano le esibizioni di canto nelle feste di famiglia e nelle feste popolari, come quelle di San Giovanni a Mare e Santa Caterina a Formiello.
Particolarmente ricordevoli i festeggiamenti dedicati al mese di maggio, una celebrazione che si ispirava alle più antiche maggiolate fiorentine.
Al primo giorno del mese, davanti a tutte le porte di casa, sui balconi e sulle finestre, s’issava l’albero del «Maio». La festa aveva inizio all’alba con le mattinate, che gli innamorati, accompagnandosi con strumenti dell’epoca - cètole, tiorbe, calascioni - dedicavano alle loro amate. Per tutta la giornata, nelle abitazioni, e fuori, si consumavano i pranzetti più succulenti, annaffiati dai vinelli delle campagne. L’albero del «Maio» rimaneva al suo posto per tutto il mese durante il quale, tranne che per brevi pause, i napoletani gareggiavano in mattinate, serenate, balli, pranzi, cene, canzoni.
Fra i poeti napoletani, il freschissimo Velardiniello, autore della nota Voccuccia de no pierzeco apreturo, e, fra i compositori: Andrea Falconieri, Giovanni Del Giovane, Francesco Lambardi, Gian Domenico Montella, Antonio Scandello, Donato Antonio Spano, con le villanelle Chi la gagliarda, donne vo’ imparare, Vurria che fosse ciàola, Napolitani nun facite folla, Ssi suttanielle donne che portate, Lo pollice, ecc.
Molte delle villanelle nate a Napoli si stamparono anche a Venezia, Bologna, Roma in raccolte ben curate e contenenti sia i versi che la musica. Moltissimi i fogli volanti, stampati rozzamente dai tipografi napoletani, purtroppo andati distrutti.
Non posso essere d’accordo con Massimiliano Vajro, uno dei più preparati storici della nostra canzone nonché persuasivo commentatore di cose napoletane; non posso essere d’accordo con lui, e me lo perdoni il carissimo amico, allorché gli viene di affermare che la canzone napoletana va datata all’ottocento, «e solo in questo secolo poteva nascere». (M. Vajro - La Canzone Napoletana, Napoli, 1957).
Per dar maggior forza alla sua affermazione, il Vajro, con suggestivo contrappunto, nega che le villanelle possano aver generato la canzone napoletana per concludere che «...esse non vanno inserite se non per una piccola parte nello sviluppo della canzone napoletana». Perciò non approva la tesi del Monti nella quale si prospetta la seguente identificazione: «Le vilianelle non sono altro che le canzoni di Napoli del Cinquecento e del Seicento, sono il nome specifico onde venivano chiamate le liriche popolari napoletane».
Identificazione propugnata, d’altronde, anche da Fausto Nicolini e Ulisse Prota-Giurleo. Vajro, invece, è più che mai convinto che soltanto nell’ ‘800 la canzone napoletana abbia trovato forma, esattamente con l’intervento di Salvatore Di Giacomo. Quando ci si attesta su queste posizioni, io ritengo che, sebbene non espressamente detto, si voglia mettere in dubbio la persistenza, nella canzone, di un sottofondo populistico che neppure al preziosismo stilistico del Di Giacomo fu dato di ignorare. Sono convinto che tra il canto popolare e la canzone, quale si strutturò nell’ ‘800, ci sia non dico una affinità, ma un’ accertabile consanguineità, perché unica è la matrice da cui ebbero vita.
Sono convinto e non lo sono solo io - che i canti popolari - per i quali esistono migliaia di monografie riguardanti tutte le regioni - non siano altro che antiche canzoni, regolarmente create da un poeta e un musicista, colti o incolti non ha importanza, o da rapsodi, menestrelli, improvvisatori, cantanti girovaghi, tramandati di generazione in generazione e giunti a noi, dalla bocca del popolo, ancorché manipolati, alterati, deformati. Ma in origine erano canzoni, forse strambotti, forse villanelle, forse canti ancora più antichi.
Non parlano di canzoni (siamo d’accordo che « canzone » è un nome generico, però da non intendersi nel senso proprio che ebbe in origine) cantate dai napoletani, di mattinate, di serenate del loro tempo, i cronisti e i diaristi del ‘300, ‘400, ‘500 e ‘600? Ma questo è un discorso che andrebbe troppo per le lunghe.
IL SEICENTO
Il ‘600 è il secolo dei melodramma. L’opera lirica, nata a Firenze nel Carnevale del 1597, rappresentata a Venezia per la prima volta nei 1637, fa capolino a Napoli nel 1651, in un teatrino fatto erigere, nel suo palazzo, per l’occasione, dal Viceré Conte d’Onatte.
Fa capolino proprio quando la villanella volge al termine. Infatti, era accaduto che, da semplice e spigliata ch’era all’origine, la villanella s’era andata complicando passando per le mani di compositori ligi al canone, che la vollero classicheggiante e in forma polifonica, in una versione molto apprezzata negli ambienti aristocratici e intellettuali, mentre le villanelle di stampo popolare continuavano ad essere monodiche. La contrapposizione contribuì all’affievolirsi dell’ispirazione, per cui se le villanelle aristocratiche andarono sempre più scadendo ivi un italiano approssimativo e stracco, quelle popolari furono intrappolate in un dialetto bastardo - tra lingua e parlata - per far sì che potessero essere capite, e quindi apprezzate, anche al di fuori di Napoli. A dar forza a questo guazzabuglio ci fu, inoltre, una sorta di suggestione collettiva secondo la quale tutti, indiscriminatamente, potevano scrivere villanelle. Perciò, improvvisazioni a non finire, con produzione enorme, è vero, ma musiche scialbe e testi insignificanti, se non scurrili. Ormai, la villanella poteva considerarsi tramontata e, con il suo tramonto, apriva un vuoto pauroso nella canzone napoletana.
Voci sporadiche come quelle di Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio e dei girovaghi poeti e musicisti Sbruffapappa, Masto Roggiero ed altri, non bastano a risollevare le sorti della canzone, avvilita fino al punto da far scrivere a Giambattista Basile:
Sse canzune de musece de notte,
De poete moderne - Nun toccano a lo bivo.
O bello tiempo antico - O canzune massicce,
O parole chiantute - O cunciette a doi sole,
O museca de truono -
Mo tu nun siente mai cosa de buono!
Che in traduzione, grosso modo, vuoi dire: Queste canzoni di poeti moderni, che suonano di notte, non toccano il vivo! O bei tempi antichi, o canzoni belle, con parole ben fatte e concetti robusti, o musica da fare sbalordire... Oggi, tu non senti mai una buona cosa!
Tuttavia, il segno di questo secolo è pur rimasto. Un canto isolato, è vero, ma di significato particolare per la storia della nostra canzone, si a per la novità della musica, sia perché, dopo oltre tre secoli, ancora si ascolta, con diletto. E’ la celebre Michelemmà (Michela è mia!), attribuita a quel genio bizzarro e proteiforme che fu Salvator Rosa, nata dopo la rivoluzione di Masaniello.
Ritiene qualcuno ch’egli vi abbia messo solo qualche nota della sua estrosa chitarra e qualche rima della sua accesa fantasia. Ma e meglio lasciar le cose come stanno, tanto più perché, a parer mio, quell’imperativo Michela è mia! a sarebbe proprio del temperamento ardente e tempestoso del pittore celebre e consono ai suoi atteggiamenti guascovi.
Altre canzoni, come si è detto, furono scritte, oltre che da improvvisatori e girovaghi, da poeti dialettali che ben si possono definire i padri della nostra letteratura popolare: Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio, Giambattista Basile.
Nonostante tutto, Napoli continuava a concedersi canti e letizia, se si deve dar credito a dei versi della metà del ‘600 già pubblicati da Sebastiano Di Massa nella sua «Storia della Canzone napoletana» e ricavati da un «Contrasto curioso tra Venezia e Napoli» (Ed. Salani, 1879).
A Napoli non c’è malinconia
si passa tutti i giorni in balli e canti;
di giorno e notte c’è sempre allegria
con Zanni, Pasquarielli e commedianti.
Le mie dame con pompa e bizzarrìa
son corteggiate dai suoi fidi amanti,
quando vanno a Posillipo l’estate,
con dolci suoni e dolci serenate.
IL SETTECENTO
Nel secolo degli abatini cincischiati e dei poeti che si compiacevano ancora - sia pure in modo minore - nel manierismo spesso barocco e vuoto del precedente seicento, i teatri sono affollatissimi. Fiorisce la musica, fiorisce la commedia dialettale, furoreggia Pulcinella. Si rinnova e si trasforma (1707) il teatro de’ Fiorentini, si apre al pubblico il teatro Nuovo (1724) e s’inaugura il primo San Carlino. Il teatro San Bartolomeo viene abbattuto per la costruzione di un altro teatro lirico più bello e più moderno voluto dal Re Carlo III, il San Carlo (1737); si ricostruisce il San Carlino, il secondo, destinato alla gloria della maschera napoletana, si inaugura il teatro del Fondo (oggi Mercadante) e una diecina di anni dopo il San Ferdinando (1790).
Intanto, nell’ottobre del 1709, nasceva l'Opera buffa, e con essa, s’apriva un degno rifugio alla canzone napoletana; era una delle più belle occasioni perché potesse riprendere a battere le ali.
L’Opera buffa, che può vantare i nomi di Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, Leo, Vinci, Fioravanti, Jommelli, Piccinni, e, tra i poeti, Giambattista Lorenzi, il Cerlone (che sforna ben 56 copioni), Federico, Trinchera, Palomba; l’Opera buffa, che annovera capolavori dal titolo: Lu frato nnammurato, Il matrimonio segreto, Il Socrate immaginario, sin dal suo nascere trattò soggetti e ambienti popolari. Le scene e le parti cantate, che all’inizio erano completamente in dialetto napoletano, a distanza di tredici anni, nel 1722, divennero una mistione di lingua e parlata con l’introduzione di personaggi quali baroni, duchi, contesse, ecc. Ovviamente, cambia anche l’ambientazione.
La canzone napoletana, dall’opera buffa, trasse nuova e fertile vita: duettini, marinaresche, arie amorose, cavatine, minuetti scritti per quelle scene diventarono le canzoni del popolo e dei salotti aristocratici. Spesso avveniva che una canzone popolare antica, elaborata o trasformata dagli autori delle opere per essere inserita nei loro spartiti, ritornava in voga. La villanella Vurria che fosse ciàola, del ‘500, è stata elaborata, o musicata, chissà per quante volte e s è cantata per trecento anni!
Numerosissime le canzoni tratte da opere buffe, come si può osservare attraverso le pubblicazioni dedicate a questo genere di musica e, per tutte, la ponderosa monografia di Michele Scherillo, «L’opera buffa».
Tra le più note canzoni del ‘700, non appartenenti a lavori teatrali: La canzone di Zeza e ‘O guarracino, una bellissima tarantella, quest’ultima, cantata ancora oggi, ma pervenute a noi, purtroppo, senza i nomi degli autori.
I canti politici che già nei passati secoli avevano sottolineato tanti avvenimenti, rifiorirono verso la fine del ‘700 con le rivoluzioni, le guerre e i martiri del ‘99, per sfociare, nella metà del secolo successivo, nei più accesi canti patriottici inneggianti all’Unità.
L’OTTOCENTO
Anche a Napoli, i segni premonitori di nuovi tempi diventano sempre più visibili; gli spiriti sono inquieti, le coscienze disorientate. Si chiede di rinunciare a tante cose del passato che sono un po’ come la loro pelle, sebbene tanto martoriata, per tanti napoletani; si propongono modelli di vita d’importazione, si agitano problemi sonnecchianti sotto la coltre dei secoli.
Gli eventi precipitano, le opposte fazioni si scontrano sanguinosamente. Napoli smette di essere la città vagheggiata da Goethe per trasformarsi in un campo aperto alla crudeltà, alla ferocia. Eppure, tra il continuo altalenarsi di speranze e delusioni, trova ancora linfa per cantare sul filo di un estro che, qualche decennio più tardi, conoscerà il punto più alto del suo splendore.
I canti politici, anche in questo secolo, si diffondono anonimamente, utilizzando vecchi motivi o inventandone dei nuovi; la satira serpeggia anche negli ambienti vicini alla Corona, non risparmiando neppure il re e la regina.
Né la musica buffa, che aveva avuto il suo massimo splendore nel settecento, conosce stasi, perché i musicisti, seguendo egregiamente le orme dei predecessori, continuano a comporre opere degne di elogio.
Scrivono versi di canzoni don Giulio Genoino, Marco D’Arienzo, Domenico Bolognese, Michelangelo Tancredi, Michele Zezza, Ernesto Del Preite, Mariano Paolella, Achille De Lauzières, affiancati da musicisti dai nomi altisonanti, o modesti: i fratelli Ricci, Saverio Mercadante, Gaetano Donizetti, Pietro Labriola, Luigi Biscardi, Francesco Florimo, Acton, Coen, ed altri.
La canzone napoletana, invece, superato alla mcv peggio il primo quarto di secolo, ha un continuo susseguirsi di alti e bassi. In questo periodo fa spicco il nome di un musicista geniale e attivissimo: Guglielmo Cottrau, un francese venuto in Italia, col padre, al seguito di Giuseppe Bonaparte e che non seppe più lasciare le ridenti zone partenopee, innamorato com’era di Napoli.
Nel 1825 il Cottrau prese a dedicarsi ai nostri canti popolari e ne raccolse un’infinità. Si deve a lui, quindi, se tante gemme della nostra canzone sono arrivate fino a noi. Tutti gli ambienti si appassionarono a quei canti rimaneggiati e pubblicati a centinaia dal Cottrau. D’altronde, intorno a quegli anni, canzoni originali se ne scrivevano pochine.
Nel 1889, scoppia, come un bengala iridescente, uno dei più popolari successi della canzone napoletana di tutti i tempi: Te voglio bene assai, dell’ottico Sacco (vedi), cantata da tutta Napoli, e fuori, per oltre trent’anni. Un successo pieno, completo, persistente fino al punto da rendere noiosa la canzone con l’avvio che diede a diecine di imitazioni, risposte, parodie, trascrizioni.
Tre anni prima, nel 1836, c’era stato un altro grosso successo: Lu cucchiere d’affitto. Ma da Lu cucchiere - escludendo Te voglio bene assai - occorre aspettare dieci anni (1846) per registrare un’altra popolarissima canzone, che fu lo spasso dell’intera città: quella Don Cicculo a la fan farra, che ispirò commedie, un romanzo ch’è un fumetto ante litterarn, (il primo che si conosca, e non soltanto fra quelli stampati a Napoli), parodie e le solite innumerevoli risposte.
Nello stesso anno si distingue per la sua grazia insolita e la buona fattura dei versi: Lu prunìno ammore di Luciano Faraone, musicata da quattro o cinque compositori, tra noti ed ignoti. Altri successi furono - per parlare dei più significativi - la famosa Santa Lucia (Sul mare luccica) - del figliuolo di Guglielmo Cottrau - del 1848; Lo cardillo (1849), Li capille de Carolina (1850), Luisella (1856), Dimme na vota si (1858).
Nel settembre del 1860, Garibaldi è a Napoli. Palazzo Angri, dalla augusta linea architettonica, ospita il Generale. Il popolo esulta, la regina del Mediterraneo è finalmente nelle braccia della madre Patria, un’onda di entusiasmo pervade la penisola tutta.
E i canti s’intensificano, l’arte guarda a cieli più grandi, si snoda ormai senza ceppi. Le canzoni, anche se, per la maggior parte, qualitativamente inferiori alle precedenti, non si contano. Napoli, però, continua a cantare quelle degli anni passati, a preferire i canti raccolti dal Cottrau e dal Florimo. Qualche canzone accettabile fino al 1870; poi, nel decennio successivo, musiche fiacche, degne dei versi scialbi, prosaici e volgari che le accompagnavano e che venivano stampati, come sempre, su migliaia di fogli volanti. E dire che a Napoli, il numero degli editori interessati alla canzone, era più che considerevole.
Nel 1880, la canzone, per merito di un musicista raffinato e già noto per le sue romanze, subisce una svolta decisiva. Luigi Denza, con la collaborazione del giornalista Peppino Turco, compone Funiculì-funiculà, che per la sua scoppiettante musica e la semplicità dei versi, passa di bocca in bocca, di città in città, di nazione in nazione, invadendo tutti i continenti e facendo gemere di continuo i torchi dell’Editore Ricordi che in pochi mesi deve stampare, per far fronte alle richieste, centinaia di migliaia di edizioni per pianoforte.
La canzone farà scrivere, qualche anno più tardi, a Giuseppe Errico: «Funiculì-funiculà si può storicamente considerare l’avanguardia delle canzoni napoletane moderne, come quella che ha aperta ed indicata la via a tutte le altre. Con Funicuiì-funiculà la canzone napoletana ha trovato la sua nuova forma in fatto di snellezza, di agilità, di movimento e di espressione».
Da qui prendono l’abbrivo musicisti che saranno l’orgoglio della canzone napoletana: Vincenzo Valente (già in attività al 1870), Mario Costa (1882), Eduardo Di Capua (1884), Giuseppe De Gregorio (1890), Salvatore Gambardella (1893), per non citare gli altri.
Ma c’è un più grande avvenimento da segnalare: nel 1882, comincia a farsi sentire la voce più limpida di Napoli: è Salvatore Di Giacomo, un albero che darà frutti deliziosissimi, fiori dai più teneri, dolci profumi, bellezze non intraviste mai, alla nostra poesia e alla canzone.
Con Di Giacomo altri poeti esemplari, s’affacciano al nuovo orizzonte. Il dinamico, vulcanico Ferdinando Russo - il più napoletano e sensibile poeta nostro - che ci ha lasciato montagne di poemetti, poesie e canzoni, fonti di immagini e ricchezza di parlata schiettissima; l’introspettivo e sfortunato Giovanni Capurro, l’esuberante Pasquale Cinquegrana, e altri ancora.
La canzone si perfeziona, si fa più bella; prospera.
I caffè fanno a gara per trasformarsi in sale e salette di trattenimento: una piccola pedana, un pianoforte, pochi strumenti, due o tre cantanti; ed è così che vediamo nascere i «caffè-chantants». Napoli, appunto negli ultimi due decenni dell’ ‘800, raggiunse il suo massimo splendore nell’arte, nella poesia e, per naturale riflesso, nella canzone che fu lanciata da Santojanni, Bideri, Izzo, Ricordi, con tatto, perizia ed abilità, quest’ultima aggiornata ai tempi che correvano. Si stamparono belle edizioni illustrate da autentici artisti e si organizzarono concorsi, spettacoli e audizioni.
I cantanti pullulavano e il pubblico chiedeva di ascoltarli, senza pause.
La canzone napoletana viveva la sua più bella stagione.
IL NOVECENTO
Il nuovo secolo, trova la canzone napoletana che domina nei teatri della città. Le Piedigrotte, che negli anni addietro venivano presentate soltanto nelle mattinate, invadono i teatri stessi con regolari spettacoli serali e dominano nei varietà che fanno a gara nel diventare sempre più lussuosi e attraenti, nel disputarsi vedettes internazionali. Sbocciano cantanti che vengono richiesti in tutta Italia ed alrestero. Emilia Persico, Carmen Marini, Elvira Donnarumma, Gennaro Pasquariello, Diego Giannini, Nicola Maldacea, Peppino Villani, Armando Gill, mandano in estasi le platee della penisola.
I poeti si susseguono senza soluzione di continuità; varianti e innovazioni sono apportate da Libero Bovio, Ernesto Murolo, Rocco Galdieri, Eduardo Nicolardi, E. A. Mario che, oltre per i versi, va citato anche per le musiche le quali, al loro apparire, costituirono una fresca novità. Musiche prodigiose sono composte da Ernesto De Curtis, Rodolfo Falvo, Nicola Valente, Evemero Nardella, Pasquale Fonzo, Giuseppe Capolongo, Enrico Cannio, Ernesto Tagliaferri, Gaetano Lama, Emanuele Nutile.
Un numero enorme di canzoni si devono a questi autori, e a tanti altri; e tutte improntate a dignità artistica che promuoveva lusinghieri apprezzamenti.
Certamente, come in tutti i tempi, anche in quel periodo aureo ci furono degli intrusi, degli squallidi epigoni che non fecero certo onore alla canzone di Napoli. Il tempo, però, è stato galantuomo con tutti
Qui, volendo attenermi a quanto si riferisce in giro, dovrei far punto perché, secondo gli assunti diffusi, la canzone napoletana sarebbe finita verso il 1938 e cioè con Na sera ‘e maggio di Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi, che ben si possono definire gli eredi più diretti dei primi, autentici nostri autori. Ma io, scevro da qualsiasi intenzione polemica, mi domando com’è possibile procedere a tal funerea fissazione di data se, successivamente, abbiamo avuto - provo a buttare giù qualche titolo - Luna rossa, Anema e core, Munastero ‘e Santa Chiara, Scalinatella, Scapricciatiello, Serenatella sciuè-sciuè, Guaglione. Qualche titolo soltanto, ripeto, perché tanti altri fanno ressa nei miei ricordi.
Invece accetto senz’altro l’opinione di coloro che ritengono, nell'attuale momento, la canzone napoletana in piena crisi. Una crisi, però, che non mi pare autorizzi, per la sua stessa natura, ad intonare il de pro fundis, poiché non è da escludere che debba essere più propriamente riguardata come una fase di transizione, cioè uno stadio in cui la nostra canzone cerca succhi e fermenti nuovi che le diano diritto alla sopravvivenza.
Del resto, a Napoli, tutti gli orizzonti artistici sono nebulosi e quel poco di cielo azzurro che ti sembra di intravedere, non sai mai se e veramente azzurro oppure ti sembra tale per un fenomeno di... daltonismo.
Diciamo, allora, che Napoli è percorsa da quella che a molti piace definire come febbre di crescenza. Aspettiamo che la febbre passi, che la convalescenza sia superata, e chissà che non ritroveremo, con Napoli tutta, la nostra canzone più agghindata che mai.
Ettore de Mura - Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969
http://www.interviu.it/canzone/feste/piedigrotta.htm
LE FESTE ESTIVE
Le Piedigrotte
Le Piedigrotte
LA PIEDIGROTTA DEL 1895
di Ferdinando Porcelli e Rosaria Maggio
La ricostruzione di una Piedigrotta ci offre l'opportunità di mostrare l'articolazione territoriale, economica, organizzativa di una festa che a partire dagli anni intorno al 1880 cominciò a cambiare fisionomia, trasformandosi dapprima in momento di diffusione delle canzoni che annualmente gli editori musicali rendevano pubbliche tramite giornali e riviste, quindi in un momento pubblicitario per merci e per nuovi modi di consumare, ed infine definì un nuovo uso del territorio, divenendo un momento in cui la città metteva in scena se stessa e quelle che voleva definire come le sue caratteristiche e potenzialità.
Il modello della Piedigrotta delle canzoni funzionò per l'ideazione delle Feste Estive che nel 1894, proprio l'anno precedente quello da noi prescelto, furono promosse e finanziate per la prima volta dall'Associazione Commercianti, sostenuta dalla stampa cittadina, in collaborazione con le autorità comunali e con il Banco di Napoli.
Le Feste Estive consistevano in un fitto programma di gare sportive, spettacoli, esposizioni, concerti, tornei che duravano da luglio a settembre per culminare nella annuale celebrazione della Piedigrotta. In quest'ambito gli stabilimenti balneari e quelli termo-minerali, i café-chantante i ritrovi più eleganti organizzavano speciali programmazioni di spettacoli; si predisponevano calendari di gite nel golfo; la Villa Nazionale, Piazza Plebiscito e la Galleria Umberto ospitavano quotidianamente concerti gratuiti; i comuni vesuviani preparavano i loro "trattenimenti e svaghi estivi"; la Società Nazionale delle Strade Ferrate e la Navigazione Generale d'Italia concedevano particolari agevolazioni per il prezzo e la durata dei biglietti dei viaggiatori diretti a Napoli.
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Anche la festa di Piedigrotta del 1895, dunque, si inscriveva nell'ambito delle Feste Estive che ne rappresentavano in qualche modo l'enfatizzazione e l'ampliamento. In questo secondo anno, le feste ebbero carattere di particolare ricchezza e il loro programma, oltre a essere diffuso come già l'anno precedente tramite quotidiani e periodici, fu oggetto di un opuscoletto particolarmente curato: la Guida Programma Ufficiale per le Feste Estive che - oltre a una breve sezione di letteratura amena - racchiudeva indicazioni utili come gli orari di treni e battelli da e per la città. In più, il Comitato Generale delle Feste Estive, di cui facevano parte eminenti personalità cittadine, letterati, musicisti, poeti, commercianti e industriali e che si avvaleva di sovvenzionamenti privati e comunali, aveva fatto pubblicare dall'editore Tocco un volume dal titolo Napoli. Storia, costume, igiene, clima, edilizia, risanamento, industria redatto anche da medici, igienisti, scienziati, in cui si elogiavano le attrattive climatiche, paesaggistiche, storiche e di costume della città.
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Nel recinto della Villa durante la settimana di Piedigrotta - dunque nuovi e diversi motivi di piacere si sommavano a quelli cui i napoletani erano già stati abituati durante tutta l'estate: il 4 settembre ebbero luogo i quadri viventi - Nerone che assiste all'incendio, Apollo e le nove muse e Un duello dopo il ballo, ispirato quest'ultimo a un quadro di Gerome - per la scenografia del conte Antonio Coppola. Oltre al diletto per gli spiriti raffinati costituito dai quadri viventi, si pensò anche allo svago per le anime semplici, rappresentato dagli alberi della cuccagna, eretti in Villa 1'8 settembre.
Ma Piedigrotta non sarebbe stata completa senza le sfilate. Nel 1895 se ne tennero tre: quella dei carri, quella dei giornalai e la grande fiaccolata dei Tre regni della natura e le grandi invenzioni.
La sfilata dei carri era organizzata anch'essa nella modalità del concorso. I carri sfilarono attraverso la città per due volte: nella mattinata e nella serata del 7 settembre su un percorso che partiva dal Museo Nazionale e, lungo via Toledo, raggiungeva Piazza Plebiscito, quindi Santa Lucia, il Chiatamone e infine il recinto delle feste della Villa, dove i figuranti e i musicisti dei carri replicarono per due volte le loro canzoni. I carri furono 19, le canzoni qualcuna in più perché - come ad esempio sul carro Café Chantant sul quale si cantarono Café Chantant e 'A novità di Gabriele Marra - su alcuni carri si eseguirono più canzoni. Con 150 lire furono premiati (1° premio ex aequo) i carri Il voto (canzone 'O Vuto di Federico Cozzolino e del M° Albin, eseguita dagli eccentrici del S. Carlino); I Molinari alla festa (canzone Friccecarella di Nicola Marfé e Carmine Marino); Cesta di fichi (canzone So' d"o ciardino overo di Luigi Russo e Enrico Caino). Con il secondo premio ex aequo furono inoltre premiati i carri: Costumi napoletani, Carro Campestre, Corbeille, Pacchiani sul somaro.
Come si vede, in questa fase della festa la trasformazione del carro da mezzo di trasporto dei pacchiani dei casali e dei paesi limitrofi per il pellegrinaggio alla Madonna di Piedigrotta (quei carri su cui si cantavano le tammurriate e i canti 'a ffigliola in onore della Vergine) in carro allegorico stava avvenendo abbastanza lentamente. Prevalevano, infatti, gli allestimenti facilmente ottenibili con modeste modifiche ai carri agricoli di tipo tradizionale............
Ad attendere cavalcata e carri, una giuria formata, fra gli altri, da Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Eduardo Matania, Enrico De Leva, Roberto Bracco.
Tutti i costumi erano forniti dalla ditta Falanga, le armature da Salvatore Giuliano (noto armiere teatrale), le attrezzature dalla ditta Tammaro Mangini e i cavalli della ditta Forgione. Le forze economiche e commerciali cittadine - oltre che procurare forza lavoro intellettuale e organizzativa, e sostegno economico alle iniziative - svolgevano un ruolo nella produzione della festa anche nella offerta gratuita di merci, costumi e attrezzature per le principali messe in scena.
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Ma gli eventi più attesi, quelli che si prevedevano più seguiti, erano naturalmente i concorsi delle canzoni: al solo concorso del Ciardino delle Feste, bandito dal Comitato per le Feste Estive, parteciparono oltre cento canzoni. Ma il numero delle canzoni che furono scritte quell'anno in città è senz'altro più imponente (4).
Concorsi di canzoni furono promossi dai giornali Napoli Musicale e Diavolo Rosso e dall'impresa del teatro Grande Esedra; vi fu un concorso Fiorillo (presumibilmente bandito dai proprietari del ristorante Ai Due Leoni in piazza Municipio), uno indetto dal Circolo Musicale Fenaroli (quest'ultimo - secondo il Roma del 6 settembre - patrocinato anche da Il Mattino); un concorso ebbe anche la casa editrice Pisano, il cui negozio di musica era in Via Toledo, e naturalmente vi fu quello che Bideri lanciò attraverso la sua rivista La Tavola Rotonda. Ricordi, invece, non bandì - né era sua abitudine - alcun concorso, limitandosi a presentare in più occasioni e in diversi luoghi la sua produzione per quell'anno: produzione già stampata in un elegante volumetto di soli testi, illustrato da Scoppetta e intitolato Chi chiagne, chi ride. Canzoni furono pubblicate inoltre su tutti i principali giornali quotidiani e periodici: dal Roma, all'Occhialetto, dal Don Marzio, al Fortunio, da 11 Mattino a Le Varietà. Canzoni vennero eseguite in vari giorni, diverse occasioni e in più luoghi. Il Giardino delle feste in Villa Nazionale il 5 e 6 settembre ospitò l'esecuzione delle circa venti canzoni selezionate dal concorso del Comitato per le Feste Estive; fra gli interpreti, Diego Giannini e Emilia Persico. In questo concorso l'editore Santojanni fu particolarmente favorito dalla sorte (e dalla giuria) e portò al successo tre sue canzoni - Ndringhete ndrà! di De Gregorio e Cinquegrana; Girulà di Califano e Nutile; 'E Cataplaseme di Capurro e Di Chiara, tutte pubblicate da L'Occhialetto - che si aggiudicarono primo, secondo e terzo premio.
Al Gran Circo delle Varietà, al Chiatamone, il 1 settembre ebbe luogo il concerto del M Vincenzo Galassi, esecuzione delle canzoni di Piedigrotta delle edizioni Ricordi. I solisti furono Maria Masula, Nunziatina Lombardi, Raffaele De Rosa, Giuseppe Giusti. Furono eseguite canzoni di Vincenzo Valente, Mario Costa, Enrico De Leva; fra gli autori dei testi Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
All'Eldorado- stabilimento balneare di giorno, ritrovo elegante di sera, inaugurato il 16 luglio 1894 a Santa Lucia di fronte a Castel dell'Ovo il 1 settembre ebbe luogo l'audizione delle canzoni del concorso de La Tavola Rotonda: fra gli interpreti Amelia Faraone, Emilia Persico, Nicola Maldacea, Ciccillo Mazzola. La canzone vincitrice fu Don Saverio di Vincenzo Valente e Pasquale Cinquegrana, nell'esecuzione di Nicola Maldacea. Altri premi furono assegnati a 'O frate 'e Rosa (ed. Santojanni) di E. Di Capua e P. Cinquegrana; Venezia benedetta! di G.B. De Curtis; I' voglio bene a te di S. Gambardella e P. Cinquegrana; I' só franco 'e cerimonie di P. Guida, G.B. De Curtis; Cerasella di A. Califano e P. E. Fonzo; Crestina 'e Mondragone di A. Mancini e P. Cinquegrana.
Ma le esecuzioni di canzoni non si fermarono qui: al Teatro Sannazaro, in via Chiaia, il 4 settembre si svolsero le prove generali delle canzoni del concorso delle Feste Estive; sotto le finestre del Corriere di Napoli ebbe luogo il concerto-serenata 'E bellezze 'e Napule, diretto da Nicolò Evangelista; al Circolo Musicale Fenarolisi cantò Fatte vasà di Paolino Stefanile e A.F. Alfano; fra il 12 e il 16 senembre in Piazza Plebiscito e al Caffè Gambrinus si replicarono più volte le canzoni di Ricordi; il 26 settembre in Galleria Umberto 1°, al Caffè Starace (divenuto poi nel 1899 Caffè Calzona) quelle de La Tavola Rotonda.
La canzone era, dunque, il momento centrale delle festività piedigrottesche; tutto il complesso sistema editoriale, spettacolare, organizzativo, distributivo e di consumo che ad essa faceva capo - nel suo sforzo di utilizzare i linguaggi e le risorse cittadini in modo nuovo e per nuovi fini aveva provocato profondi cambiamenti nella festa tradizionale: erano nati nuovi riti, nuovi "pellegrinaggi", nuove mete per le feste settembrine.
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Di conseguenza si accrebbero la complessità della festa, la sua articolazione e naturalmente aumentarono la specializzazione, la divisione del lavoro, la gerarchizzazione degli apparati e delle organizzazioni che presiedevano alla sua preparazione. E aumentò l'importanza economica della festa stessa, e non solo per i visitatori che essa portava a Napoli, o perché a partire dalla Piedigrotta gli editori musicali prendevano il via per "esportare" le loro canzoni anche nel resto d'Italia e del mondo. Carri, fuochi pirotecnici, sfilate, fiaccolate, palchi, pedane, chioschi, recinti nascevano dal lavoro di ideatori, organizzatori, finanziatori, architetti, scenografi, impresari, ma anche da quello di sarti, fuochisti, carpentieri, artigiani, decoratori; le canzoni erano il frutto della creatività di autori, musicisti, illustratori, dello spirito imprenditoriale degli editori, ma richiedevano l'impiego di compositori, tipografi, piegatori, spedizionieri: Piedigrotta era una grande occasione di lavoro - e richiedeva un'alta qualità di lavoro - per molte persone.
1 Notizie tratte dal Fortunio, 10 luglio 1895, 20 luglio 1895
2 Notizia tratta dalla Guida programma ufficiale delle Feste Estive, Napoli, Tocco, 1895.
3 Tutte le notizie del paragrafo sono tratte dal Fortunio, Don Marzio, Roma, Il Pungolo Parlamentare, Corriere di Napoli, Il Mattino, L'Occhialetto, La Tavola Rotonda dei giorni fra l'1 e il 15 settembre del 1895, confrontate e incrociate fra loro.
4 L'elenco riguarda solo le canzoni di cui si sono travati gli spartiti o quelle della cui esecuzione si è appresa la notizia tramite la consultazione dei giornali. Il numero delle canzoni effettivamente eseguite e satmpate potrebbe, dunque, essere più grande di quello indicato.
Tratto dal catalogo: Piedigrotta 1895-1995
Progetti Museali Editore, Roma 1995
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Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
tratto da Qui
LA CANZONE NAPOLETANA NELLE SUE MANIFESTAZIONI
CANZONI A BALLO
Il ballo è sempre stato, sin dai tempi più remoti, nella coscienza di tutte le popolazioni, indipendentemente dal loro grado di civiltà. Ricordava avvenimenti, concorreva a celebrare riti religiosi, s'introduceva nei cerimoniali funebri e nelle pratiche degli stregoni. In genere era accompagnato, oltre che dagli strumenti in uso, dal canto. Napoli seguì la sorte comune a tutti gli altri popoli, e fino ai '700, le canzoni a ballo ebbero la preponderanza sugli altri canti. Anzi, parecchie canzoni, secondo notizie che diventano sempre meno vaghe a partire dai '400, prendevano addirittura il nome dai nuovi balli.
LA BALLATA, che vuoi significare proprio «aria da cantare ballando», pur diventando, nel 1300, per merito dei poeti toscani, un componimento dotto e aristocratico in Italia, come in Francia e nella Spagna, continuò ad essere popolarissima a Napoli, fino al '600. Lasciando da parte lo strambotto, che spesso integrò ballate e canzoni a ballo, e trascurando nomi di balli di poca importanza, si elencano, qui di seguito, quelli che ebbero maggiori rapporti con la canzone napoletana:
LA VILLANELLA - Nata a Napoli verso la fine del '400, da un ballo campestre - come è stato scritto nelle precedenti pagine - ebbe vita fino al '700.
LA CHIARANTANA - Già nota agli inizi del '400, fu diffusissima a Roma e a Firenze nel secolo successivo. Nello stesso periodo fu nota a Napoli.
LA CATUBBA - Ballo napoletano, (alcuni lo dicono proveniente dalla Turchia), impiantato sull'imitazione dell'andatura degli ubriachi, nato verso la fine dei '500, fu uno dei più comuni fino a tutto il '600. Il delizioso poeta napoletano Filippo Sgruttendio scrisse alcune poesie per catubbe, pubblicate nel suo canzoniere «La tiorba a taccone».
Lo TORNIELLO - Ballo in giro, sorta di girotondo. Noto in mezza Europa e in Italia, dai toscani fu chiamato Carola. Diffuso nel Medio Evo, si voleva che fosse nato in Francia, anche se oggi è provato trattarsi di un antico canto popolare inglese. A Napoli si ballò specialmente nel '500 e nel '600.
Figurazione del Ballo Lo Torniello. Disegno di Callot, dalle Oeuvres - Ediz. 1701
LA CASCARDA - Fu nota in tutta la penisola e si ballò (in tempo 3/4 e 3/8) anche a Napoli, nel '500 e nel '600. Bartolomeo Zito, nel commento al poema napoletano di G. C. Cortese, elenca dodici titoli di canzoni a tempo di Gascarda, fra cui: Serenella, Gunto dell'uorco, Roggiero vattuto, Io vao cercanno e nen nne saccio nova, Guarda de chi me jette a nnammorare.
BALLO DI SFESSANIA O LA LUCIA - (Dal quale derivò anche La Ntrezzata o L'Imperticata, una sorta di danza delle spade, che si svolgeva agitando dei bastoni inghirlandati di fiori). Trattasi di danza figurata e molto movimentata, formata da numerose coppie. Jacopo Callot (1592-1635) la illustrò in una serie di deliziosi disegni pubblicati nel 1620. Secondo il Del Tufo, fu importata da Malta. A Napoli, con le sue varianti, fu nota verso la metà del '500 e la sua popolarità aumentò col passare degli anni, per diminuire nella seconda metà del '600, finché non sfociò nel più celebre e affascinante ballo napoletano di tutti i tempi. La Tarantella, (vedi).
Versi di Ntrezzate e Lucie si possono leggere nel succitato Canzoniere di Filippo Sgruttendio, ma anche altri poeti e musicisti si cimentarono in questo genere.
LA GAGLIARDA - Proveniente dalla campagna romana, fu in voga in tutta Italia e in Europa. Dall'inizio dei '500 ebbe vita fino alla metà del secolo successivo e si unì alle più apprezzate danze delle case principesche e reali. Il suo ritmo, vivace, era di 3/2. Una gagliarda a forma di villanella fu musicata da Baldassarre Donato (Chi la gagliarda, donne vo' imparare - Venite a noi che siamo mastri fini), e pubblicata a Venezia nel 1558. Ma, prima ancora, nel 1541, era stata musicata e pubblicata da Giovan Domenico Del Giovane.
LA CIACCONA - A parte l'importanza che ebbe nel campo della composizione musicale classica italiana e straniera, la ciaccona fu conosciuta a Napoli come ballo licenzioso, importato dalle prime compagnie teatrali spagnole, verso il 1620. Purificata dai maestri di ballo napoletani, conquistò rapidamente i giovani napoletani e fu ballata fino alla metà del '700. Le canzoni a tempo di ciaccona, che fu anche volta al maschile, il Ciccone, furono abbondanti, e moltissime se ne trovano nelle opere buffe del '700. Solamente la Tarantella poté far dimenticare a Napoli questo ballo.
IL ROGGIERO - Doveva essere una delle tante musiche a ballo create dal girovago Masto Roggiero «rapsodo della canzone» e autore di arie e villanelle. Il Roggiero si cominciò a ballare a Napoli sulla fine del '500 e resistette fino al primo ventennio del '700.
LA TARANTELLA - Nel '700, con la comparsa della Tarantella, i napoletani abbandonarono quasi del tutto gli altri balli per riversarsi, entusiasti, sul nuovo ritmo. La Tarantella, nata nella seconda metà del '600 dalla Sfessania, dalla Ntrezzata e da altre ancora (vedi pagine precedenti), col suo tempo indiavolato, 3/8 o 6/8, con le sue figurazioni di corteggiamento e conquista, si presentava, infatti, come una delle danze più attraenti. Nelle campagne, sulle spiagge, sulle terrazze di Posillipo, nelle piazze, nelle bettole, a suon di nacchere e tamburelli, - quando non intervenivano altri strumenti come la chitarra, di gran moda, clarinetti o flauti - non si ballava che la Tarantella. Bastava un gruppo di ballerini di tarantella per attirare folla e forestieri. Diverse diecine di scrittori stranieri l'hanno descritta nei loro libri, in diari e corrispondenze, e parecchi musicisti classici si ispirarono ad essa per comporre musiche sullo stesso ritmo, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn, da Rossini a Bellini, da Donizetti a Ricci, autore quest'ultimo, di una delle più celebri tarantelle, inserita - ballata e cantata - nell'opera buffa Piedigrotta. Di canzoni a tempo di tarantella si è parlato, e ancora se ne parlerà, per l'abbondanza delle composizioni avutesi nell' '800 ed oltre, fino ai tempi nostri. Aggiungo, per chi ne volesse sapere di più, che è di pochi anni fa, 1963, la pubblicazione di un bei saggio - davvero esauriente - di Renato Penna, sulle origini e le vicende della tarantella. Per la prima volta si congettura come essa possa risalire al tempo della corte aragonese, cioè al 1450.
Nei '600, e maggiormente nel '700, le ragazze del popolo impazzivano per il ballo, tanto da far dire al poeta Velardino Bottone nella sua commedia Lo Barone de Trocchia, musicata da Leonardo Vinci e rappresentata al Fiorentini nel gennaio del 1721: Non c'è fegliola a Napoli -che non saccia de museca e d'abballo (Non v'è ragazza a Napoli che non sappia di musica e di ballo). Si ballava, oltre la Tarantella, il Minuetto - d'origine francese e apprezzato dalle case blasonate - la Controdanza e la Gavotta, arrivate a noi sulla eco dei successi inglesi. In conseguenza, i "maste abballature" (i maestri di ballo) che nel '500 formavano soltanto un piccolo gruppo, divennero tanto numerosi da avvertire la necessità di inserirsi nelle corporazioni di cui già facevano parte musicisti, cantanti, girovaghi e simili, tutti beneficiati da regolamenti che prevedevano soccorsi per disoccupazione, malattie, invalidità, maritaggi per le figliuole, sepolture. Qualcosa di più, come si vede, dei moderni istituti di assistenza. Canzoni per argomenti sacri, con musiche appropriate, esistevano da anni; ma, essendo diventato, di fatto, 'indispensabile il ballo nella vita dei napoletani del '700, alcuni ecclesiastici credettero opportuno di scrivere canzoncine religiose sui motivi dei ballabili più in voga. Ho il piacere di possedere un raro libriccino riportante alcune di coteste canzoncine, stampato nel 1744 da Giovanni Di Simone: «Canzoni nuove, divote, belle - Secondo i suoni della chitarra, e sì d'ogni altro strumento - dedicate - a' valenti sonatori - da un Fedel di Gesucristo". Nella prefazione, "il Fedel di Gesucristo" racconta che "udendo suoni e canti d'un gran valente maestro sonator di chitarra, il quale fu da un buon amico a lui recato per sollazzarlo; i canti udendo, lasciamo stare senza forma di metro, di rime, laidi assai per la materia sporca, scandalosi a concupiscenza svegliare infocare... " si convinse dell'utilità di adattare canzoni spirituali ai ritmi in voga, sì che, pur soddisfacendo al desiderio di ballare dei giovani, avrebbero, però, evitato di portare nocumento alla salute delle loro anime. Anzi, lui stesso ne scrisse e ne stampò. Fra le tante, figurano: Della potenza del Padre Eterno (al suono nominato della tarantella), Dell'Incarnazione di Gesucristo e morte (al suono di Roggiero), A Nostra Signora (adattabile al suono della Siciliana), A Nostra Donna Dolorata (al suono flebile simile al Roggiero), e via di seguito. E non si commenta, perché, indubbiamente, nel "Fedel di Gesucristo" c'era una perfetta buona fede! Compreso quel peccatuccio di presunzione commesso nel definire «belle» quelle sue canzoni.
Ed ora non dispiacerà, credo, che io qui inserisca un accenno alle «quadriglie» di Carnevale ed ai «Cartelli», che non erano altro se non carri allegorici, come quelli che si sono sempre visti alla festa di Piedigrotta, e programmi (cartelli) con poesie, o canzoni, presentati separatamente da categorie di piccoli commercianti o artigiani. Non hanno nulla a che vedere con le canzoni a ballo, è vero, ma con esse costituiscono pur sempre un interessante segno del costume dell'epoca. Verso la fine del '600, a Napoli, con l'inizio del Carnevale, si usava intonare canti carnascialeschi ed allestire feste di cuccagna. Setajuoli, armieri, carrozzieri, berrettieri, macellai, e numerose altre associazioni di arti, mestieri e venditori, si organizzavano per dar vita alle manifestazioni note col nome di «quadriglie delle arti». I vari gruppi erano composti esclusivamente da uomini mascherati e indossanti vesti fantasiosamente strane; così acconciati, i gruppi si esibivano in balletti dinanzi al viceré, alla viceregina, ad alti dignitari e nobili, mentre i popolani, che tutt'intorno facevano corona, applaudivano o schernivano, a seconda degli umori. Dopo di che, i carri allegorici (quadriglie), percorso che avevano per intero la via Toledo, raggiungevano il largo di Palazzo per sostare proprio sotto il balcone donde si affacciava il viceré. Qui si cantavano le canzoni che ciascun gruppo aveva fatto comporre per l'occasione, appunto per magnificare la propria attività e far risaltare i propri prodotti che ne erano oggetto. Alla fine, i carri, traboccanti di ogni specie di commestibili (pani, prosciutti, capretti, salcicce, polli, formaggi e altro), venivano abbandonati al saccheggio della plebe che muoveva all'assalto tra violenze di. ogni sorta. Lo spettacolo era orrendo e gli effetti disastrosi: urla, pugni, calci, contusi, feriti, e del carro, compresi i buòi o i cavalli, non rimaneva nemmeno l'ombra. Le «quadriglie ", le troviamo ancora in voga verso la metà del '700, senza, però, la selvaggia usanza della "cuccagna". Cavalcate e carri allegorici continuavano a reclamizzare merci e prodotti, bottegai e commercianti; ciascun raggruppamento, con un esaltante manifesto, annunciava la propria esibizione, ne illustrava lo svolgimento e pubblicava la canzone, o la poesia, scritta di proposito. Il notaio Trinchera e Giacomo Antonio Palmieri, furono tra i più fecondi autori di poesie (come si è detto, si chiamavano " cartelli ") per "quadriglie", insieme con altri che sono rimasti sconosciuti. Alcuni titoli di chiara indicazione: Li padulane, Li panettiere, Li casadduoglie, Li maccarunare, Li canteniere, Li ciardeniere, Li pisciavinnole, Li chianchiere, e via di seguito. In altre pagine, se ne pubblica qualcuna.
La Tarantella, nel 1800, anziché tediare come tutte le cose che si ingurgitano in abbondanza, mantenne costante, anzi, accrebbe l'entusiasmo che aveva suscitato fino allora. Proclamata «ballo nazionale» nello scorcio del secolo precedente, continuò a interessare popolani, salotti eleganti, forestieri, scrittori, musicisti. Si formarono troupes di tarantella che al suono di nacchere e tamburelli nonché degli strumenti più di moda - violini, mandolini e chitarre - portarono la napoletanissima danza in giro per l'Italia e all'estero, comprese la Russia e l'America. Molte canzoni furono musicate su quel ritmo; tutti i compositori, dal primo all'ultimo, ne furono suggestionati. Tra gli altri: Labriola, Biscardi, Florimo, Cottrau, Acton. Ad essi seguirono quelli della nuova leva: Costa, con i versi deliziosi del Di Giacomo; Vincenzo Valente, Di Capua, Di Chiara, Gambardella, e, nel primo quarto del '900, Nicola Valente, Cannio, Falvo, Tagliaferri, E. A. Mario e tanti, tanti fino ai giorni nostri.
VALZER ED ALTRE. Non mancarono, sin dai primi anni dell' '800, canzoni a Valzer, un ballo che, nato in Austria nella metà del '700, non tardò ad invadere tutta l'Europa. Il suo tempo, 3/4, e il movimento variato - lento allegro e allegretto - ancora oggi ingentilisce un certo tipo di canzoni nostre. Neppure il tempo dei 2/4 della polka - danza nata in Boemia - passo inosservato ai nostri canzonieri (Cannio, nel secondo decennio del '900, su testi spassosissimi fornitigli dal Capurro, di polke ne compose parecchie). Una canzone di Salvatore Di Giacomo e Vincenzo Valente, nel 1917 (Tango napulitano), sottolinea la popolarità del Tango in Italia, arrivato dal Messico una diecina d'anni prima. L'esempio era stato preceduto, e fu seguito, da altri poeti e musicisti. E occorre proprio dire che tutti i balli degli ultimi tempi: Fox, Shirnrny, Charleston, Rok n'roll, Beguine, Cha cha cha, hanno alimentato motivi di canzoni napoletane?
Vediamo, adesso, della nostra canzone, gli altri suoi generi e alcune sue manifestazioni:
MELODIA
E' il genere più comune. Non ha una forma precisa, non ha tempo obbligato e non sfocia mai nell'allegro sfrenato. E' la composizione più espressiva - com'è intesa universalmente e sin dagli antichi tempi - capace di suscitare nell'ascoltatore vibrazioni romantiche e commozione. E' vicina alla romanza da camera, da cui, qualche volta, ha tratto anche ispirazione, ma è a carattere più popolare.
SERENATA
Trovò i primi accenti sui liuti dei trovatori e dei giullari in pieno medioevo. Le più dolci serenate le ebbero Firenze e Venezia. Sempre suonata di sera, sotto il balcone della fanciulla amata, siccome dettava la consuetudine, anche a Napoli ha espresso i più comuni trasporti d'amore, compreso il dispetto. Prevalentemente sentimentale, il suo ritmo è basato sul tempo 3/4 o 2/4; qualche volta, per soggetti allegri, è stato usato il tempo cS~ (tagliato). La canzone napoletana vanta gioielli di "canzoni a serenata", e basterà citare: Maria, Marì del Di Capua, Scetate di Costa e Voce 'e notte del De Curtis. MATTINATA E' un componimento simile alla serenata, solo che, anziché di sera, o di notte, veniva cantato all'alba, per svegliare le ragazze, con una dichiarazione d'amore. Canzoni ispirate alla Mattinata sono state scritte fino ad oggi. Fra quelle antiche si ricordano: Primmamatina di Falvo (1912) e Buongiorno a Maria di E. A. Mario (1916).
Serenate e Mattinate, erano in gran voga a Napoli, sin dai primi anni del '200, ed erano tanto frequenti da generare fastidio. Nel 1221, l'Imperatore Federico Il, per le tante istanze pervenutegli dai napoletani che protestavano contro i cantori - ed erano parecchi - che all'alba turbavano il loro sonno con canzoni d'amore, o dispettose, con un apposito bando vietò le Mattinate. Ma gli innamorati non si dovettero dare per vinti se un'altra ordinanza del 1335, di Roberto D'Angiò, che rinnovava il divieto, provocò l'arresto del notaio Jacovello Fusco perché faceva di continuo cantare " mattinate " sotto la finestra di una certa Giovannella De Gennaro, donna maritata ed onesta; la quale donna, restia all'insistente corte del Fusco, s'era rivolta al re perché offesa ed esasperata dalle canzoni triviali che le dedicava il notaio. Al genere delle Serenate si possono assegnare anche le Ciambellarie e le Macriate, che hanno avuto vita dal '500 fino ai primi del '700. Don Pietro di Toledo, fra i tanti meriti che ebbe durante il suo viceregno, represse innumerevoli abusi che si commettevano nella città; fra i tanti, verso la metà del '500, quello delle Ciambellarie. Per dare l'idea di che cosa fossero queste deplorevoli manifestazioni riporto testualmente quanto scrive il Giannone (Storia civile del Regno di Napoli, Ediz. 1723 - Vol. IV -pag. 49): "Era si introdotto costume in Napoli che quando le donne vedove si rimaritavano, s'univan le brigate, e la notte con suoni villani, e canti ingiuriosi, andavano sotto le finestre degli sposi a cantar mille spropositi ed oscenità; e questi suoni e canti chiamavano Ciambellarie; donde ne sortivano molte risse, e talora omicidi; e sovente gli sposi per non sentirsi queste baje, si componevano con denaro, o altra cosa colle brigate, perché se n'andassero". Di qualche secolo dopo furono le Macriate, consistenti in un oltraggio portato a quei mariti che, essendo stati traditi, meritavano, secondo un pregiudizio largamente diffuso, derisione. Di notte, si riuniva una comitiva di musici e cantanti che, fermatasi sotto le finestre del disgraziato, narrava, a suon di musica, le disavventure della coppia; il tutto, rinforzato da contumelie e invettive. Questo malcostume, è da notare, si propagò anche fra la nobiltà: infatti giovani blasonati spesso si servirono di Macriate per offendere la donna che li aveva respinti o abbandonati, non tralasciando di far cadere il loro livore anche sui mariti, narrando in musica atroci verità, ma, più sovente, soltanto delle malignità. Nella notte di San Martino, protettore dei mariti.., sfortunati, le Macriate si decuplicavano. Le leggi del vicereame, benché ritenute ferree per le severe pene che assegnavano a chi era arrestato per tale reato, nulla poterono contro questa incivilissima usanza.
BARCAROLA
Canzone ispirata al mare e in generale, alle donne dei marinai e dei pescatori. La sua musica è suadente, ha un tempo di 6/8 o 12/8 ed imita il movimento cullante di una barca. Sono degli ultimi anni del '700 le prime barcarole napoletane, almeno quelle che si possono con sicurezza definire tali. Nell' '800 abbondarono, e alcune di esse ancora famose oggi, come la Santa Lucia di Cottrau, 'A sirena di V. Valente, Luna nova di Costa, 'O marenariello di Gambardella, fino alle più moderne Ncopp'a ll'onne di Fassone e Piscatore 'e Pusilleco di Tagliaferri. Uno dei più geniali autori di barcarole fu il M° Gaetano Lama.
MANDOLINATA
Ha il tempo della Serenata, ma è scritta prevalentemente per essere accompagnata da mandolini o da strumenti che riescono a produrre ugual trillo.
CANZONE A MARCIA
Il suo tempo ritmico è il 2/4 o il 4/4, più raramente il 6/8. Sin dai tempi antichi ha regolato il passo dei soldati. La canzone napoletana l'ha adottato per quei soggetti a carattere militaresco anche se, i protagonisti, soffusi come spesso sono, di nostalgia per la donna amata e per il paese lontano, di marziale hanno ben poco. Anche i temi a carattere patriottico sono stati trattati dai nostri musicisti, con lo stesso ritmo. Uno dei compositori di maggiore spicco, nel genere di canzone a marcia, è stato, nel primo quarto del nostro secolo, il M° Enrico Cannio; per tutte, valga la bellissima 'O surdato nnammurato.
LA MACCHIETTA
S'inquadra nel genere comico, ove sentimenti e atteggiamenti sono presentati di volta in volta, con spunti umoristici, satirici, ridicoli, ironici, grotteschi, arguti e scherzosi. Il suo scopo è di provocare il riso, od almeno un sorriso. La tnacchietta mette in primo piano un tipo, cerca il più possibile di ritrarne, deformandoli, i lati apparentemente comici, così come il vero artista della matita da un solo tratto caratteristico della figura che ha preso in oggetto, ricava una ben riuscita caricatura alterando, in piccolo o in grande, i punti che più sollecitamente lo hanno colpito. Nicola Maldacea, genuino asso della risata dal 1891, fu l'animatore, il numero uno del prestigioso "genere". La musica della macchietta non ha un ritmo particolare perché la sua funzione è di far da sottofondo alla mimica del macchiettista. Sin dal '600, la canzone napoletana ha avuto componimenti comici: Lo paglietta di Andrea Perrucci e Michelangelo Faggiolo; il '700, tante ne trasse dalle opere buffe, e l' '800, come per tutti gli altri generi di canzoni, ne ebbe moltissime: Lo cucchiere d'affitto, Don Ciccillo a la Fan farra, Stò tanto ncuietato pe stu fatto, La melizia terretoriale, ecc. Ma qui, in verità, si tratta di canzoni buffe e non di macchiette vere e proprie. La macchietta si differisce molto dalla canzone buffa, che, si ricordi, rinvigorì le sue radici nella commedia musicale del '700. Come ebbe origine la macchietta, l'apprenderemo dal suo ideatore: Ferdinando Russo, che ne parla in un articolo apparso su «La Tribuna» del 18 agosto 1925, dal titolo «Piedigrotta di oggi».
Or sono molti anni, dall'inizio della sua carriera di dicitore, Nicola Maldacea canticchiava con singolare espressione, le canzoni del tempo, Lariuld, Oilì-Oilà ed altre; ma non tutte, per mancanza quasi assoluta d'un volume - e direi meglio: d'un volumetto - di voce, poteva egli rendere con quella mirabile efficacia che lo ha fatto diventare celebre. Le canzoni, sia pure bene scelte e adattate alla vostra piccola voce, non sono per voi, gli dicevo una sera, dopo il suo debutto, che fu nondimeno una rivelazione, al «Salone Margherita», voi avete bisogno di un repertorio speciale, fatto di cose che non siano la vera e propria canzone. - E gli spiegai in che cosa consistesse questo repertorio; e per la prima volta gli parlai della macchietta. La macchietta era, per me che l'avevo ideata, una canzonetta appena cantata e un po' sussurrata, che serbando tutto il carattere napoletano, doveva delineare tipi, non sospirare d'amore; e questi tipi, curiosi, comici, o grotteschi, dovevano essere scrupolosamente interpretati. Maldacea questo poteva farlo prodigiosamente. Ed avrebbe così dato un nuovo genere di composizione, più importante della canzone perché di contenuto psicologico, e appena bisognevole di un tenue commento musicale che non superasse il suono della voce, sì da lasciare emergere, in tutta la espressione più efficace e sostanziale, la qualità singolare del dicitore, cioè la incarnazione, presentata al pubblico, di un tipo della vita. - E chi me le farebbe queste macchiette? - Io. Così sorsero le primissime macchiette: L'Elegante, Pozzo fa 'o prevete?, Il Cantastorie, Il Madro, Il Pompiere del teatro, Il Cicerone e tante altre. E il nuovo genere fu subito imitato perché accolto ed accettato, come una rivelazione, con entusiasmo indimenticabile. E durò un bel pezzo; poi, caduto in mano dei soliti guastamestieri, si andò deformando, senza logica, fino a degenerare in isconcezze e volgarità che non avevano alcuna ragione di essere. La macchietta, dopo il suo periodo d'oro, come avverte il caro Don Ferdinando, decadde verso il '20, per riprendersi, trasformata e aggiornata, alcuni anni più tardi, quando il maestro Giuseppe Cioffi e Gigi Pisano, non disdegnando di rimetter su questo componimento spassoso, ottennero clamorosi successi con Ciccio Formaggio, Datemi Elisabetta, L'hai voluto te!, Mazza, Pezza e Pizzo, ecc. E Nino Taranto, che ancora oggi ne è l'interprete, può considerarsi l'erede ed il continuatore di Nicola Maldacea.
CANZONE DI GIACCA
Già in voga verso la fine del secolo scorso con soggetti che esprimevano desideri di libertà dei carcerati, atteggiamenti spavaldi di guappi, si consolidò nei primi anni del nostro secolo con soggetti di cronaca nera. Prese il nome di "canzone di giacca" perché il cantante, smesso il frak indossato per cantare gentili melodie, si ripresentava al pubblico in giacca e con un fazzoletto annodato alla gola, per apparire vero figlio del popolo. Un abbigliamento, insomma, che gli permetteva di interpretare con maggiore naturalezza una canzone di contenuto drammatico o guappesco, e sfociante, quasi sempre, in un'azione violenta, in un progettato, o consumato, delitto. La musica, che aderiva al testo ora con slancio impetuoso, ora con sottolineature passionali, non ebbe nessun modulo particolare sebbene da più di un compositore venisse usato il tempo 4/4. Molti autori si cimentarono in questo genere, anche il Di Giacomo con Tarantella scura. Ma il vero creatore della canzone di giacca fu Libero Bovio. Le tre parti della canzone di Bovio erano congegnate con tecnica sorprendente, tanto da apparire come la sintesi di un dramma in tre atti. Ne scrissero anche E. A. Mario, Francesco Fiore, ed altri. Fra i tanti interpreti della canzone di giacca, i più efficaci furono Gennaro Pasquariello e Mario Mari.
CANZONE SCENEGGIATA
E' un lavoro teatrale il cui soggetto è stato tratto da una canzone. Già nell' '800, al San Carlino, l'Altavilla scriveva commedie sfruttando, a volte, il titolo di una canzone di successo, sicuro di richiamare pubblico. A sta fenesta affacciate!, Te voglio bene assaie, Don Ciccillo a la Fanfarra, fecero parte del suo repertorio. Eduardo Scarpetta, nel 1898, utilizzò un titolo del Di Giacomo: 'E tre terature, per una sua nuova commedia. Maldacea, la Faraone ed altri comici, al Salone Margherita, nell'ultimo decennio del secolo, interpretarono scenette che prendevano lo spunto e il titolo da canzoni di successo. Ma la sua vita migliore, la canzone sceneggiata la visse tra il 1920 e l'ultimo dopo guerra. Una compagnia formata dal comico Salvatore Cafiero (vedi) e dall'attore Eugenio Fumo, portò ai sette cieli questo genere che, curato nei minimi particolari, richiamava uno strabocchevole pubblico ogni qualvolta il lavoro portava il titolo di una canzone cantata e ricantata. Per la cronaca, si deve dire che, precedentemente, sebbene in una formazione più ridotta, c'era già stata una compagnia di sceneggiate: quella animata dai cantanti Mimì Maggio, Roberto Ciaramella e Silvia Coruzzolo.
TAMMURRIATA
Canzone allegra in cui il tamburo, agitato dalla cantante, diventa protagonista, fra tutti gli altri strumenti accompagnatori. Anche le canzoni campagnole, purché abbiano ritmo, possono far parte delle cc tammurriate ". Bellissima la Tammurriata palazzola di Russo e Falvo, quelle scritte da E. A. Mario, da Tammurriatella (versi di Furnò) a Tammurriata all'antica (versi di Murolo) e Tammurriata nera (versi di Nicolardi); quella di Tagliaferri: Tammurriata d'autunno, e tante altre.
CANZONI DI PRIMAVERA
Le canzoni dedicate a quella ch'è considerata come la più bella tra le stagioni, ebbero un grande sviluppo nell'ultimo decennio del secolo scorso. Le musiche tenui, flautate, d'un allegretto piacevole e insinuante, avevano, in un certo senso, il carattere delle antiche pastorali.
E come ogni anno, di Piedigrotta, le case editrici bandivano concorsi, pubblicavano novità, organizzavano audizioni, così, a partire dalla fine dell' '800, quando il calendario segnava il 21 marzo, le stesse case facevano altrettanto per lanciare le canzoni di primavera, quasi si trattasse di una seconda Piedigrotta. La consuetudine durò per oltre trent'anni; poi si diradò e, infine, fu del tutto abbandonata. Uno dei più dotati compositori di canzoni primaverili e campagnole fu Giuseppe Capo-longo. (E' Primmavera, Fronn' 'e cerase, Ammore ncampagna).
Non mi pare sia il caso di parlare, in queste note, anche perché gli argomenti richiederebbero particolari svolgimenti, dei Canti di malavita e dei Canti a figliola (appartenenti più al folklore che alla canzone); delle Canzoni religiose (scritte, come si è già accennato, in tutte le epoche e meritevoli di un discorso approfondito); dei Canti e delle Canzoni politiche (in massima parte di anonimi, specie quelle che riguardano le rivoluzioni del 1799 e 1848); delle Canzoni occasionali (scritte per avvenimenti importanti: la prima ferrovia, la prima funicolare, la ferrovia Cumana, l'invenzione della luce elettrica, della bicicletta, il variare della moda, ecc.). Né, ritengo, sia il caso di dar conto delle Parodie e del Duetto, due generi di canzoni che si spiegano da soli. Non mi resta, quindi, che parlare, sia pure fugacemente, della più importante festa napotana, "la festa delle feste", come dicono i suoi amatori, e che ha tanti legami con la can zone: la Piedigrotta.
LA FESTA DI PIEDIGROTTA
Lasciando da parte documenti e leggende che desumano la festa di Piedigrotta sia la continuazione purificata di feste pagane e baccanali; trascurando le testimonianze del Petrarca e del Boccaccio che videro affollare l'allora piccolo tempio dedicato alla Madonna di Piedigrotta dai marinai della spiaggia di Mergellina, si può, con ragionevole certèzza, ritenere che il culto dei napoletani per la Grande Madre nella ricorrenza della Sua natività, sia cominciato verso la metà del '409. Già prima, nel Santuario, ingrandito e abbellito più volte, si erano recati spesso sovrani, principi e ministri a pregare per grazie ricevute, ma le visite ufficiali dei regnanti ebbero inizio più tardi. "E' probabile - scrive il Volpicella - che sin dal 1528 incominciasse l'usanza della visita reale o vicereale, e la rivista militare che l'accompagnava". E le parate più o meno sfarzose, con carrozze e abbigliamenti eleganti dei nobili, sfilate di soldati, bande, fuochi d'artificio, navi che sparavano a salve, fiumane di popolo provenienti da tutte le città del Regno, durarono fino al 1861. Giuseppe Garibaldi - entrato in città -partecipò alla festa. L'anno successivo vi prese parte il Generale Enrico Cialdini. E fu tutto! I resoconti degli avvenimenti piedigrotteschi di oltre cinque secoli, sono sparsi in diari, guide e gazzette, e sono anche leggibili nel voluminoso e ben ordinato archivio della Basilica. E le canzoni? Scarse notizie. Si sa che durante il fanatismo per la tarantella, gruppi di popolani, nella notte della festa, ballavano nella grotta di Piedigrotta illuminata con torce, e nei viali della villa reale aperta al pubblico per l'occasione; e che, prima o dopo il ballo, si cantavano canzoni in voga. E' dalla nascita di Te voglio bene assaie, (1839), che si comincia a parlare di «Canzoni di Piedigrotta» .
Impropriamente, devo soggiungere, perché durante la festa non è che si intonassero canti nuovi di trinca, bensì canzoni che, già conosciute in altre circostanze e ambienti, soltanto in un secondo momento erano diventate, per la loro orecchiabilità, patrimonio dei popolani, di quei popolani che, durante la notte del 7 settembre, aspettavano l'apertura del Santuario di Piedigrotta, alternando canzoni a vino e cibarie. La tradizione canora e festaiola s'interruppe nel 1861; fu ripresa qualche anno dopo, nel 1876, per iniziativa di un distributore di giornali, certo Luigi Capuozzo. I Sovrani, e le loro truppe, non partecipano più alla nostra festa? Ebbene, li sostituiremo con sovrani e truppe finte, si dovette dire il Capuozzo. Senza frapporre indugi, radunò gli amici strilloni, e organizzò quella che doveva essere la prima cavalcata storica di Piedigrotta. Poi ricomparvero i carri allegorici, si riprese a cantare canzoni scritte su misura per esaltare, questa volta, gli aspetti più folkloristici della festa o per richiamare l'attenzione sulla validità del soggetto del carro. In comune con le «quadriglie» di fine '600, non restava che la propensione ad una gran scalmana da ricordare per tutto l'anno, scalmana nella quale la rapinosa conclusione di un tempo, era sostituita dal più modesto assalto a «ruoti» di melenzane di casalinga provenienza. La vera Piedigrotta delle canzoni la si può far coincidere con la nascita del caffè-concerto, allorché, in quelle sale, si prese l'abitudine di presentare piccoli gruppi di nuove composizioni nei pomeriggi, o sere, del 7, 8 e 9 settembre. Dal 1891, facendo valere una tradizione che, sebbene verde di anni, era ormai entrata nel costume dell'intera città, la Piedigrotta delle canzoni venne presentata nelle più importanti sale teatrali, di mattina, sempre nei medesimi giorni, e poi in normali spettacoli serali, tra agosto e settembre. Il seguito, è storia che abbiamo vissuto noi stessi.Qui
Ettore de Mura - Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969
LA CANZONE NAPOLETANA NELLE SUE MANIFESTAZIONI
CANZONI A BALLO
Il ballo è sempre stato, sin dai tempi più remoti, nella coscienza di tutte le popolazioni, indipendentemente dal loro grado di civiltà. Ricordava avvenimenti, concorreva a celebrare riti religiosi, s'introduceva nei cerimoniali funebri e nelle pratiche degli stregoni. In genere era accompagnato, oltre che dagli strumenti in uso, dal canto. Napoli seguì la sorte comune a tutti gli altri popoli, e fino ai '700, le canzoni a ballo ebbero la preponderanza sugli altri canti. Anzi, parecchie canzoni, secondo notizie che diventano sempre meno vaghe a partire dai '400, prendevano addirittura il nome dai nuovi balli.
LA BALLATA, che vuoi significare proprio «aria da cantare ballando», pur diventando, nel 1300, per merito dei poeti toscani, un componimento dotto e aristocratico in Italia, come in Francia e nella Spagna, continuò ad essere popolarissima a Napoli, fino al '600. Lasciando da parte lo strambotto, che spesso integrò ballate e canzoni a ballo, e trascurando nomi di balli di poca importanza, si elencano, qui di seguito, quelli che ebbero maggiori rapporti con la canzone napoletana:
LA VILLANELLA - Nata a Napoli verso la fine del '400, da un ballo campestre - come è stato scritto nelle precedenti pagine - ebbe vita fino al '700.
LA CHIARANTANA - Già nota agli inizi del '400, fu diffusissima a Roma e a Firenze nel secolo successivo. Nello stesso periodo fu nota a Napoli.
LA CATUBBA - Ballo napoletano, (alcuni lo dicono proveniente dalla Turchia), impiantato sull'imitazione dell'andatura degli ubriachi, nato verso la fine dei '500, fu uno dei più comuni fino a tutto il '600. Il delizioso poeta napoletano Filippo Sgruttendio scrisse alcune poesie per catubbe, pubblicate nel suo canzoniere «La tiorba a taccone».
Lo TORNIELLO - Ballo in giro, sorta di girotondo. Noto in mezza Europa e in Italia, dai toscani fu chiamato Carola. Diffuso nel Medio Evo, si voleva che fosse nato in Francia, anche se oggi è provato trattarsi di un antico canto popolare inglese. A Napoli si ballò specialmente nel '500 e nel '600.
Figurazione del Ballo Lo Torniello. Disegno di Callot, dalle Oeuvres - Ediz. 1701
LA CASCARDA - Fu nota in tutta la penisola e si ballò (in tempo 3/4 e 3/8) anche a Napoli, nel '500 e nel '600. Bartolomeo Zito, nel commento al poema napoletano di G. C. Cortese, elenca dodici titoli di canzoni a tempo di Gascarda, fra cui: Serenella, Gunto dell'uorco, Roggiero vattuto, Io vao cercanno e nen nne saccio nova, Guarda de chi me jette a nnammorare.
BALLO DI SFESSANIA O LA LUCIA - (Dal quale derivò anche La Ntrezzata o L'Imperticata, una sorta di danza delle spade, che si svolgeva agitando dei bastoni inghirlandati di fiori). Trattasi di danza figurata e molto movimentata, formata da numerose coppie. Jacopo Callot (1592-1635) la illustrò in una serie di deliziosi disegni pubblicati nel 1620. Secondo il Del Tufo, fu importata da Malta. A Napoli, con le sue varianti, fu nota verso la metà del '500 e la sua popolarità aumentò col passare degli anni, per diminuire nella seconda metà del '600, finché non sfociò nel più celebre e affascinante ballo napoletano di tutti i tempi. La Tarantella, (vedi).
Versi di Ntrezzate e Lucie si possono leggere nel succitato Canzoniere di Filippo Sgruttendio, ma anche altri poeti e musicisti si cimentarono in questo genere.
LA GAGLIARDA - Proveniente dalla campagna romana, fu in voga in tutta Italia e in Europa. Dall'inizio dei '500 ebbe vita fino alla metà del secolo successivo e si unì alle più apprezzate danze delle case principesche e reali. Il suo ritmo, vivace, era di 3/2. Una gagliarda a forma di villanella fu musicata da Baldassarre Donato (Chi la gagliarda, donne vo' imparare - Venite a noi che siamo mastri fini), e pubblicata a Venezia nel 1558. Ma, prima ancora, nel 1541, era stata musicata e pubblicata da Giovan Domenico Del Giovane.
LA CIACCONA - A parte l'importanza che ebbe nel campo della composizione musicale classica italiana e straniera, la ciaccona fu conosciuta a Napoli come ballo licenzioso, importato dalle prime compagnie teatrali spagnole, verso il 1620. Purificata dai maestri di ballo napoletani, conquistò rapidamente i giovani napoletani e fu ballata fino alla metà del '700. Le canzoni a tempo di ciaccona, che fu anche volta al maschile, il Ciccone, furono abbondanti, e moltissime se ne trovano nelle opere buffe del '700. Solamente la Tarantella poté far dimenticare a Napoli questo ballo.
IL ROGGIERO - Doveva essere una delle tante musiche a ballo create dal girovago Masto Roggiero «rapsodo della canzone» e autore di arie e villanelle. Il Roggiero si cominciò a ballare a Napoli sulla fine del '500 e resistette fino al primo ventennio del '700.
LA TARANTELLA - Nel '700, con la comparsa della Tarantella, i napoletani abbandonarono quasi del tutto gli altri balli per riversarsi, entusiasti, sul nuovo ritmo. La Tarantella, nata nella seconda metà del '600 dalla Sfessania, dalla Ntrezzata e da altre ancora (vedi pagine precedenti), col suo tempo indiavolato, 3/8 o 6/8, con le sue figurazioni di corteggiamento e conquista, si presentava, infatti, come una delle danze più attraenti. Nelle campagne, sulle spiagge, sulle terrazze di Posillipo, nelle piazze, nelle bettole, a suon di nacchere e tamburelli, - quando non intervenivano altri strumenti come la chitarra, di gran moda, clarinetti o flauti - non si ballava che la Tarantella. Bastava un gruppo di ballerini di tarantella per attirare folla e forestieri. Diverse diecine di scrittori stranieri l'hanno descritta nei loro libri, in diari e corrispondenze, e parecchi musicisti classici si ispirarono ad essa per comporre musiche sullo stesso ritmo, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn, da Rossini a Bellini, da Donizetti a Ricci, autore quest'ultimo, di una delle più celebri tarantelle, inserita - ballata e cantata - nell'opera buffa Piedigrotta. Di canzoni a tempo di tarantella si è parlato, e ancora se ne parlerà, per l'abbondanza delle composizioni avutesi nell' '800 ed oltre, fino ai tempi nostri. Aggiungo, per chi ne volesse sapere di più, che è di pochi anni fa, 1963, la pubblicazione di un bei saggio - davvero esauriente - di Renato Penna, sulle origini e le vicende della tarantella. Per la prima volta si congettura come essa possa risalire al tempo della corte aragonese, cioè al 1450.
Nei '600, e maggiormente nel '700, le ragazze del popolo impazzivano per il ballo, tanto da far dire al poeta Velardino Bottone nella sua commedia Lo Barone de Trocchia, musicata da Leonardo Vinci e rappresentata al Fiorentini nel gennaio del 1721: Non c'è fegliola a Napoli -che non saccia de museca e d'abballo (Non v'è ragazza a Napoli che non sappia di musica e di ballo). Si ballava, oltre la Tarantella, il Minuetto - d'origine francese e apprezzato dalle case blasonate - la Controdanza e la Gavotta, arrivate a noi sulla eco dei successi inglesi. In conseguenza, i "maste abballature" (i maestri di ballo) che nel '500 formavano soltanto un piccolo gruppo, divennero tanto numerosi da avvertire la necessità di inserirsi nelle corporazioni di cui già facevano parte musicisti, cantanti, girovaghi e simili, tutti beneficiati da regolamenti che prevedevano soccorsi per disoccupazione, malattie, invalidità, maritaggi per le figliuole, sepolture. Qualcosa di più, come si vede, dei moderni istituti di assistenza. Canzoni per argomenti sacri, con musiche appropriate, esistevano da anni; ma, essendo diventato, di fatto, 'indispensabile il ballo nella vita dei napoletani del '700, alcuni ecclesiastici credettero opportuno di scrivere canzoncine religiose sui motivi dei ballabili più in voga. Ho il piacere di possedere un raro libriccino riportante alcune di coteste canzoncine, stampato nel 1744 da Giovanni Di Simone: «Canzoni nuove, divote, belle - Secondo i suoni della chitarra, e sì d'ogni altro strumento - dedicate - a' valenti sonatori - da un Fedel di Gesucristo". Nella prefazione, "il Fedel di Gesucristo" racconta che "udendo suoni e canti d'un gran valente maestro sonator di chitarra, il quale fu da un buon amico a lui recato per sollazzarlo; i canti udendo, lasciamo stare senza forma di metro, di rime, laidi assai per la materia sporca, scandalosi a concupiscenza svegliare infocare... " si convinse dell'utilità di adattare canzoni spirituali ai ritmi in voga, sì che, pur soddisfacendo al desiderio di ballare dei giovani, avrebbero, però, evitato di portare nocumento alla salute delle loro anime. Anzi, lui stesso ne scrisse e ne stampò. Fra le tante, figurano: Della potenza del Padre Eterno (al suono nominato della tarantella), Dell'Incarnazione di Gesucristo e morte (al suono di Roggiero), A Nostra Signora (adattabile al suono della Siciliana), A Nostra Donna Dolorata (al suono flebile simile al Roggiero), e via di seguito. E non si commenta, perché, indubbiamente, nel "Fedel di Gesucristo" c'era una perfetta buona fede! Compreso quel peccatuccio di presunzione commesso nel definire «belle» quelle sue canzoni.
Ed ora non dispiacerà, credo, che io qui inserisca un accenno alle «quadriglie» di Carnevale ed ai «Cartelli», che non erano altro se non carri allegorici, come quelli che si sono sempre visti alla festa di Piedigrotta, e programmi (cartelli) con poesie, o canzoni, presentati separatamente da categorie di piccoli commercianti o artigiani. Non hanno nulla a che vedere con le canzoni a ballo, è vero, ma con esse costituiscono pur sempre un interessante segno del costume dell'epoca. Verso la fine del '600, a Napoli, con l'inizio del Carnevale, si usava intonare canti carnascialeschi ed allestire feste di cuccagna. Setajuoli, armieri, carrozzieri, berrettieri, macellai, e numerose altre associazioni di arti, mestieri e venditori, si organizzavano per dar vita alle manifestazioni note col nome di «quadriglie delle arti». I vari gruppi erano composti esclusivamente da uomini mascherati e indossanti vesti fantasiosamente strane; così acconciati, i gruppi si esibivano in balletti dinanzi al viceré, alla viceregina, ad alti dignitari e nobili, mentre i popolani, che tutt'intorno facevano corona, applaudivano o schernivano, a seconda degli umori. Dopo di che, i carri allegorici (quadriglie), percorso che avevano per intero la via Toledo, raggiungevano il largo di Palazzo per sostare proprio sotto il balcone donde si affacciava il viceré. Qui si cantavano le canzoni che ciascun gruppo aveva fatto comporre per l'occasione, appunto per magnificare la propria attività e far risaltare i propri prodotti che ne erano oggetto. Alla fine, i carri, traboccanti di ogni specie di commestibili (pani, prosciutti, capretti, salcicce, polli, formaggi e altro), venivano abbandonati al saccheggio della plebe che muoveva all'assalto tra violenze di. ogni sorta. Lo spettacolo era orrendo e gli effetti disastrosi: urla, pugni, calci, contusi, feriti, e del carro, compresi i buòi o i cavalli, non rimaneva nemmeno l'ombra. Le «quadriglie ", le troviamo ancora in voga verso la metà del '700, senza, però, la selvaggia usanza della "cuccagna". Cavalcate e carri allegorici continuavano a reclamizzare merci e prodotti, bottegai e commercianti; ciascun raggruppamento, con un esaltante manifesto, annunciava la propria esibizione, ne illustrava lo svolgimento e pubblicava la canzone, o la poesia, scritta di proposito. Il notaio Trinchera e Giacomo Antonio Palmieri, furono tra i più fecondi autori di poesie (come si è detto, si chiamavano " cartelli ") per "quadriglie", insieme con altri che sono rimasti sconosciuti. Alcuni titoli di chiara indicazione: Li padulane, Li panettiere, Li casadduoglie, Li maccarunare, Li canteniere, Li ciardeniere, Li pisciavinnole, Li chianchiere, e via di seguito. In altre pagine, se ne pubblica qualcuna.
La Tarantella, nel 1800, anziché tediare come tutte le cose che si ingurgitano in abbondanza, mantenne costante, anzi, accrebbe l'entusiasmo che aveva suscitato fino allora. Proclamata «ballo nazionale» nello scorcio del secolo precedente, continuò a interessare popolani, salotti eleganti, forestieri, scrittori, musicisti. Si formarono troupes di tarantella che al suono di nacchere e tamburelli nonché degli strumenti più di moda - violini, mandolini e chitarre - portarono la napoletanissima danza in giro per l'Italia e all'estero, comprese la Russia e l'America. Molte canzoni furono musicate su quel ritmo; tutti i compositori, dal primo all'ultimo, ne furono suggestionati. Tra gli altri: Labriola, Biscardi, Florimo, Cottrau, Acton. Ad essi seguirono quelli della nuova leva: Costa, con i versi deliziosi del Di Giacomo; Vincenzo Valente, Di Capua, Di Chiara, Gambardella, e, nel primo quarto del '900, Nicola Valente, Cannio, Falvo, Tagliaferri, E. A. Mario e tanti, tanti fino ai giorni nostri.
VALZER ED ALTRE. Non mancarono, sin dai primi anni dell' '800, canzoni a Valzer, un ballo che, nato in Austria nella metà del '700, non tardò ad invadere tutta l'Europa. Il suo tempo, 3/4, e il movimento variato - lento allegro e allegretto - ancora oggi ingentilisce un certo tipo di canzoni nostre. Neppure il tempo dei 2/4 della polka - danza nata in Boemia - passo inosservato ai nostri canzonieri (Cannio, nel secondo decennio del '900, su testi spassosissimi fornitigli dal Capurro, di polke ne compose parecchie). Una canzone di Salvatore Di Giacomo e Vincenzo Valente, nel 1917 (Tango napulitano), sottolinea la popolarità del Tango in Italia, arrivato dal Messico una diecina d'anni prima. L'esempio era stato preceduto, e fu seguito, da altri poeti e musicisti. E occorre proprio dire che tutti i balli degli ultimi tempi: Fox, Shirnrny, Charleston, Rok n'roll, Beguine, Cha cha cha, hanno alimentato motivi di canzoni napoletane?
Vediamo, adesso, della nostra canzone, gli altri suoi generi e alcune sue manifestazioni:
MELODIA
E' il genere più comune. Non ha una forma precisa, non ha tempo obbligato e non sfocia mai nell'allegro sfrenato. E' la composizione più espressiva - com'è intesa universalmente e sin dagli antichi tempi - capace di suscitare nell'ascoltatore vibrazioni romantiche e commozione. E' vicina alla romanza da camera, da cui, qualche volta, ha tratto anche ispirazione, ma è a carattere più popolare.
SERENATA
Trovò i primi accenti sui liuti dei trovatori e dei giullari in pieno medioevo. Le più dolci serenate le ebbero Firenze e Venezia. Sempre suonata di sera, sotto il balcone della fanciulla amata, siccome dettava la consuetudine, anche a Napoli ha espresso i più comuni trasporti d'amore, compreso il dispetto. Prevalentemente sentimentale, il suo ritmo è basato sul tempo 3/4 o 2/4; qualche volta, per soggetti allegri, è stato usato il tempo cS~ (tagliato). La canzone napoletana vanta gioielli di "canzoni a serenata", e basterà citare: Maria, Marì del Di Capua, Scetate di Costa e Voce 'e notte del De Curtis. MATTINATA E' un componimento simile alla serenata, solo che, anziché di sera, o di notte, veniva cantato all'alba, per svegliare le ragazze, con una dichiarazione d'amore. Canzoni ispirate alla Mattinata sono state scritte fino ad oggi. Fra quelle antiche si ricordano: Primmamatina di Falvo (1912) e Buongiorno a Maria di E. A. Mario (1916).
Serenate e Mattinate, erano in gran voga a Napoli, sin dai primi anni del '200, ed erano tanto frequenti da generare fastidio. Nel 1221, l'Imperatore Federico Il, per le tante istanze pervenutegli dai napoletani che protestavano contro i cantori - ed erano parecchi - che all'alba turbavano il loro sonno con canzoni d'amore, o dispettose, con un apposito bando vietò le Mattinate. Ma gli innamorati non si dovettero dare per vinti se un'altra ordinanza del 1335, di Roberto D'Angiò, che rinnovava il divieto, provocò l'arresto del notaio Jacovello Fusco perché faceva di continuo cantare " mattinate " sotto la finestra di una certa Giovannella De Gennaro, donna maritata ed onesta; la quale donna, restia all'insistente corte del Fusco, s'era rivolta al re perché offesa ed esasperata dalle canzoni triviali che le dedicava il notaio. Al genere delle Serenate si possono assegnare anche le Ciambellarie e le Macriate, che hanno avuto vita dal '500 fino ai primi del '700. Don Pietro di Toledo, fra i tanti meriti che ebbe durante il suo viceregno, represse innumerevoli abusi che si commettevano nella città; fra i tanti, verso la metà del '500, quello delle Ciambellarie. Per dare l'idea di che cosa fossero queste deplorevoli manifestazioni riporto testualmente quanto scrive il Giannone (Storia civile del Regno di Napoli, Ediz. 1723 - Vol. IV -pag. 49): "Era si introdotto costume in Napoli che quando le donne vedove si rimaritavano, s'univan le brigate, e la notte con suoni villani, e canti ingiuriosi, andavano sotto le finestre degli sposi a cantar mille spropositi ed oscenità; e questi suoni e canti chiamavano Ciambellarie; donde ne sortivano molte risse, e talora omicidi; e sovente gli sposi per non sentirsi queste baje, si componevano con denaro, o altra cosa colle brigate, perché se n'andassero". Di qualche secolo dopo furono le Macriate, consistenti in un oltraggio portato a quei mariti che, essendo stati traditi, meritavano, secondo un pregiudizio largamente diffuso, derisione. Di notte, si riuniva una comitiva di musici e cantanti che, fermatasi sotto le finestre del disgraziato, narrava, a suon di musica, le disavventure della coppia; il tutto, rinforzato da contumelie e invettive. Questo malcostume, è da notare, si propagò anche fra la nobiltà: infatti giovani blasonati spesso si servirono di Macriate per offendere la donna che li aveva respinti o abbandonati, non tralasciando di far cadere il loro livore anche sui mariti, narrando in musica atroci verità, ma, più sovente, soltanto delle malignità. Nella notte di San Martino, protettore dei mariti.., sfortunati, le Macriate si decuplicavano. Le leggi del vicereame, benché ritenute ferree per le severe pene che assegnavano a chi era arrestato per tale reato, nulla poterono contro questa incivilissima usanza.
BARCAROLA
Canzone ispirata al mare e in generale, alle donne dei marinai e dei pescatori. La sua musica è suadente, ha un tempo di 6/8 o 12/8 ed imita il movimento cullante di una barca. Sono degli ultimi anni del '700 le prime barcarole napoletane, almeno quelle che si possono con sicurezza definire tali. Nell' '800 abbondarono, e alcune di esse ancora famose oggi, come la Santa Lucia di Cottrau, 'A sirena di V. Valente, Luna nova di Costa, 'O marenariello di Gambardella, fino alle più moderne Ncopp'a ll'onne di Fassone e Piscatore 'e Pusilleco di Tagliaferri. Uno dei più geniali autori di barcarole fu il M° Gaetano Lama.
MANDOLINATA
Ha il tempo della Serenata, ma è scritta prevalentemente per essere accompagnata da mandolini o da strumenti che riescono a produrre ugual trillo.
CANZONE A MARCIA
Il suo tempo ritmico è il 2/4 o il 4/4, più raramente il 6/8. Sin dai tempi antichi ha regolato il passo dei soldati. La canzone napoletana l'ha adottato per quei soggetti a carattere militaresco anche se, i protagonisti, soffusi come spesso sono, di nostalgia per la donna amata e per il paese lontano, di marziale hanno ben poco. Anche i temi a carattere patriottico sono stati trattati dai nostri musicisti, con lo stesso ritmo. Uno dei compositori di maggiore spicco, nel genere di canzone a marcia, è stato, nel primo quarto del nostro secolo, il M° Enrico Cannio; per tutte, valga la bellissima 'O surdato nnammurato.
LA MACCHIETTA
S'inquadra nel genere comico, ove sentimenti e atteggiamenti sono presentati di volta in volta, con spunti umoristici, satirici, ridicoli, ironici, grotteschi, arguti e scherzosi. Il suo scopo è di provocare il riso, od almeno un sorriso. La tnacchietta mette in primo piano un tipo, cerca il più possibile di ritrarne, deformandoli, i lati apparentemente comici, così come il vero artista della matita da un solo tratto caratteristico della figura che ha preso in oggetto, ricava una ben riuscita caricatura alterando, in piccolo o in grande, i punti che più sollecitamente lo hanno colpito. Nicola Maldacea, genuino asso della risata dal 1891, fu l'animatore, il numero uno del prestigioso "genere". La musica della macchietta non ha un ritmo particolare perché la sua funzione è di far da sottofondo alla mimica del macchiettista. Sin dal '600, la canzone napoletana ha avuto componimenti comici: Lo paglietta di Andrea Perrucci e Michelangelo Faggiolo; il '700, tante ne trasse dalle opere buffe, e l' '800, come per tutti gli altri generi di canzoni, ne ebbe moltissime: Lo cucchiere d'affitto, Don Ciccillo a la Fan farra, Stò tanto ncuietato pe stu fatto, La melizia terretoriale, ecc. Ma qui, in verità, si tratta di canzoni buffe e non di macchiette vere e proprie. La macchietta si differisce molto dalla canzone buffa, che, si ricordi, rinvigorì le sue radici nella commedia musicale del '700. Come ebbe origine la macchietta, l'apprenderemo dal suo ideatore: Ferdinando Russo, che ne parla in un articolo apparso su «La Tribuna» del 18 agosto 1925, dal titolo «Piedigrotta di oggi».
Or sono molti anni, dall'inizio della sua carriera di dicitore, Nicola Maldacea canticchiava con singolare espressione, le canzoni del tempo, Lariuld, Oilì-Oilà ed altre; ma non tutte, per mancanza quasi assoluta d'un volume - e direi meglio: d'un volumetto - di voce, poteva egli rendere con quella mirabile efficacia che lo ha fatto diventare celebre. Le canzoni, sia pure bene scelte e adattate alla vostra piccola voce, non sono per voi, gli dicevo una sera, dopo il suo debutto, che fu nondimeno una rivelazione, al «Salone Margherita», voi avete bisogno di un repertorio speciale, fatto di cose che non siano la vera e propria canzone. - E gli spiegai in che cosa consistesse questo repertorio; e per la prima volta gli parlai della macchietta. La macchietta era, per me che l'avevo ideata, una canzonetta appena cantata e un po' sussurrata, che serbando tutto il carattere napoletano, doveva delineare tipi, non sospirare d'amore; e questi tipi, curiosi, comici, o grotteschi, dovevano essere scrupolosamente interpretati. Maldacea questo poteva farlo prodigiosamente. Ed avrebbe così dato un nuovo genere di composizione, più importante della canzone perché di contenuto psicologico, e appena bisognevole di un tenue commento musicale che non superasse il suono della voce, sì da lasciare emergere, in tutta la espressione più efficace e sostanziale, la qualità singolare del dicitore, cioè la incarnazione, presentata al pubblico, di un tipo della vita. - E chi me le farebbe queste macchiette? - Io. Così sorsero le primissime macchiette: L'Elegante, Pozzo fa 'o prevete?, Il Cantastorie, Il Madro, Il Pompiere del teatro, Il Cicerone e tante altre. E il nuovo genere fu subito imitato perché accolto ed accettato, come una rivelazione, con entusiasmo indimenticabile. E durò un bel pezzo; poi, caduto in mano dei soliti guastamestieri, si andò deformando, senza logica, fino a degenerare in isconcezze e volgarità che non avevano alcuna ragione di essere. La macchietta, dopo il suo periodo d'oro, come avverte il caro Don Ferdinando, decadde verso il '20, per riprendersi, trasformata e aggiornata, alcuni anni più tardi, quando il maestro Giuseppe Cioffi e Gigi Pisano, non disdegnando di rimetter su questo componimento spassoso, ottennero clamorosi successi con Ciccio Formaggio, Datemi Elisabetta, L'hai voluto te!, Mazza, Pezza e Pizzo, ecc. E Nino Taranto, che ancora oggi ne è l'interprete, può considerarsi l'erede ed il continuatore di Nicola Maldacea.
CANZONE DI GIACCA
Già in voga verso la fine del secolo scorso con soggetti che esprimevano desideri di libertà dei carcerati, atteggiamenti spavaldi di guappi, si consolidò nei primi anni del nostro secolo con soggetti di cronaca nera. Prese il nome di "canzone di giacca" perché il cantante, smesso il frak indossato per cantare gentili melodie, si ripresentava al pubblico in giacca e con un fazzoletto annodato alla gola, per apparire vero figlio del popolo. Un abbigliamento, insomma, che gli permetteva di interpretare con maggiore naturalezza una canzone di contenuto drammatico o guappesco, e sfociante, quasi sempre, in un'azione violenta, in un progettato, o consumato, delitto. La musica, che aderiva al testo ora con slancio impetuoso, ora con sottolineature passionali, non ebbe nessun modulo particolare sebbene da più di un compositore venisse usato il tempo 4/4. Molti autori si cimentarono in questo genere, anche il Di Giacomo con Tarantella scura. Ma il vero creatore della canzone di giacca fu Libero Bovio. Le tre parti della canzone di Bovio erano congegnate con tecnica sorprendente, tanto da apparire come la sintesi di un dramma in tre atti. Ne scrissero anche E. A. Mario, Francesco Fiore, ed altri. Fra i tanti interpreti della canzone di giacca, i più efficaci furono Gennaro Pasquariello e Mario Mari.
CANZONE SCENEGGIATA
E' un lavoro teatrale il cui soggetto è stato tratto da una canzone. Già nell' '800, al San Carlino, l'Altavilla scriveva commedie sfruttando, a volte, il titolo di una canzone di successo, sicuro di richiamare pubblico. A sta fenesta affacciate!, Te voglio bene assaie, Don Ciccillo a la Fanfarra, fecero parte del suo repertorio. Eduardo Scarpetta, nel 1898, utilizzò un titolo del Di Giacomo: 'E tre terature, per una sua nuova commedia. Maldacea, la Faraone ed altri comici, al Salone Margherita, nell'ultimo decennio del secolo, interpretarono scenette che prendevano lo spunto e il titolo da canzoni di successo. Ma la sua vita migliore, la canzone sceneggiata la visse tra il 1920 e l'ultimo dopo guerra. Una compagnia formata dal comico Salvatore Cafiero (vedi) e dall'attore Eugenio Fumo, portò ai sette cieli questo genere che, curato nei minimi particolari, richiamava uno strabocchevole pubblico ogni qualvolta il lavoro portava il titolo di una canzone cantata e ricantata. Per la cronaca, si deve dire che, precedentemente, sebbene in una formazione più ridotta, c'era già stata una compagnia di sceneggiate: quella animata dai cantanti Mimì Maggio, Roberto Ciaramella e Silvia Coruzzolo.
TAMMURRIATA
Canzone allegra in cui il tamburo, agitato dalla cantante, diventa protagonista, fra tutti gli altri strumenti accompagnatori. Anche le canzoni campagnole, purché abbiano ritmo, possono far parte delle cc tammurriate ". Bellissima la Tammurriata palazzola di Russo e Falvo, quelle scritte da E. A. Mario, da Tammurriatella (versi di Furnò) a Tammurriata all'antica (versi di Murolo) e Tammurriata nera (versi di Nicolardi); quella di Tagliaferri: Tammurriata d'autunno, e tante altre.
CANZONI DI PRIMAVERA
Le canzoni dedicate a quella ch'è considerata come la più bella tra le stagioni, ebbero un grande sviluppo nell'ultimo decennio del secolo scorso. Le musiche tenui, flautate, d'un allegretto piacevole e insinuante, avevano, in un certo senso, il carattere delle antiche pastorali.
E come ogni anno, di Piedigrotta, le case editrici bandivano concorsi, pubblicavano novità, organizzavano audizioni, così, a partire dalla fine dell' '800, quando il calendario segnava il 21 marzo, le stesse case facevano altrettanto per lanciare le canzoni di primavera, quasi si trattasse di una seconda Piedigrotta. La consuetudine durò per oltre trent'anni; poi si diradò e, infine, fu del tutto abbandonata. Uno dei più dotati compositori di canzoni primaverili e campagnole fu Giuseppe Capo-longo. (E' Primmavera, Fronn' 'e cerase, Ammore ncampagna).
Non mi pare sia il caso di parlare, in queste note, anche perché gli argomenti richiederebbero particolari svolgimenti, dei Canti di malavita e dei Canti a figliola (appartenenti più al folklore che alla canzone); delle Canzoni religiose (scritte, come si è già accennato, in tutte le epoche e meritevoli di un discorso approfondito); dei Canti e delle Canzoni politiche (in massima parte di anonimi, specie quelle che riguardano le rivoluzioni del 1799 e 1848); delle Canzoni occasionali (scritte per avvenimenti importanti: la prima ferrovia, la prima funicolare, la ferrovia Cumana, l'invenzione della luce elettrica, della bicicletta, il variare della moda, ecc.). Né, ritengo, sia il caso di dar conto delle Parodie e del Duetto, due generi di canzoni che si spiegano da soli. Non mi resta, quindi, che parlare, sia pure fugacemente, della più importante festa napotana, "la festa delle feste", come dicono i suoi amatori, e che ha tanti legami con la can zone: la Piedigrotta.
LA FESTA DI PIEDIGROTTA
Lasciando da parte documenti e leggende che desumano la festa di Piedigrotta sia la continuazione purificata di feste pagane e baccanali; trascurando le testimonianze del Petrarca e del Boccaccio che videro affollare l'allora piccolo tempio dedicato alla Madonna di Piedigrotta dai marinai della spiaggia di Mergellina, si può, con ragionevole certèzza, ritenere che il culto dei napoletani per la Grande Madre nella ricorrenza della Sua natività, sia cominciato verso la metà del '409. Già prima, nel Santuario, ingrandito e abbellito più volte, si erano recati spesso sovrani, principi e ministri a pregare per grazie ricevute, ma le visite ufficiali dei regnanti ebbero inizio più tardi. "E' probabile - scrive il Volpicella - che sin dal 1528 incominciasse l'usanza della visita reale o vicereale, e la rivista militare che l'accompagnava". E le parate più o meno sfarzose, con carrozze e abbigliamenti eleganti dei nobili, sfilate di soldati, bande, fuochi d'artificio, navi che sparavano a salve, fiumane di popolo provenienti da tutte le città del Regno, durarono fino al 1861. Giuseppe Garibaldi - entrato in città -partecipò alla festa. L'anno successivo vi prese parte il Generale Enrico Cialdini. E fu tutto! I resoconti degli avvenimenti piedigrotteschi di oltre cinque secoli, sono sparsi in diari, guide e gazzette, e sono anche leggibili nel voluminoso e ben ordinato archivio della Basilica. E le canzoni? Scarse notizie. Si sa che durante il fanatismo per la tarantella, gruppi di popolani, nella notte della festa, ballavano nella grotta di Piedigrotta illuminata con torce, e nei viali della villa reale aperta al pubblico per l'occasione; e che, prima o dopo il ballo, si cantavano canzoni in voga. E' dalla nascita di Te voglio bene assaie, (1839), che si comincia a parlare di «Canzoni di Piedigrotta» .
Impropriamente, devo soggiungere, perché durante la festa non è che si intonassero canti nuovi di trinca, bensì canzoni che, già conosciute in altre circostanze e ambienti, soltanto in un secondo momento erano diventate, per la loro orecchiabilità, patrimonio dei popolani, di quei popolani che, durante la notte del 7 settembre, aspettavano l'apertura del Santuario di Piedigrotta, alternando canzoni a vino e cibarie. La tradizione canora e festaiola s'interruppe nel 1861; fu ripresa qualche anno dopo, nel 1876, per iniziativa di un distributore di giornali, certo Luigi Capuozzo. I Sovrani, e le loro truppe, non partecipano più alla nostra festa? Ebbene, li sostituiremo con sovrani e truppe finte, si dovette dire il Capuozzo. Senza frapporre indugi, radunò gli amici strilloni, e organizzò quella che doveva essere la prima cavalcata storica di Piedigrotta. Poi ricomparvero i carri allegorici, si riprese a cantare canzoni scritte su misura per esaltare, questa volta, gli aspetti più folkloristici della festa o per richiamare l'attenzione sulla validità del soggetto del carro. In comune con le «quadriglie» di fine '600, non restava che la propensione ad una gran scalmana da ricordare per tutto l'anno, scalmana nella quale la rapinosa conclusione di un tempo, era sostituita dal più modesto assalto a «ruoti» di melenzane di casalinga provenienza. La vera Piedigrotta delle canzoni la si può far coincidere con la nascita del caffè-concerto, allorché, in quelle sale, si prese l'abitudine di presentare piccoli gruppi di nuove composizioni nei pomeriggi, o sere, del 7, 8 e 9 settembre. Dal 1891, facendo valere una tradizione che, sebbene verde di anni, era ormai entrata nel costume dell'intera città, la Piedigrotta delle canzoni venne presentata nelle più importanti sale teatrali, di mattina, sempre nei medesimi giorni, e poi in normali spettacoli serali, tra agosto e settembre. Il seguito, è storia che abbiamo vissuto noi stessi.Qui
Ettore de Mura - Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
Messaggio di un non iscritto qui (link alla discussione originale):
athelas ha scritto:Quando i balli pugliesi? Adoro la pizzica :normalwub:
Cantastorie ha scritto:si, è la Puglia che manca all'appello...sto preparando un post non solo sulle tradiz della pizzica, ma anche qualcosa sul Folk di Carpino (Fg) http://www.carpinofolkfestival.com/
su M. Salvatore, e su uno strumento tipico soprattutto della zona jonica tra Calabria e Puglia...la chitarra battente...http://it.wikipedia.org/wiki/Chitarra_battente
e intanto lascio questo link pdf ..
sul canto tradiz pugliese..
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
ecco, ho trovato il sito-miniera a prop. della musica popolare pugliese '900 ...
archivio sonoro pugliese
E' un sito che raccoglie diverse schede tematiche; tre distinguono le aree geografiche - gargano - murgia - salento, un'altra sezione si occupa di singoli cantastorie protagonisti ..
Alcune tra le figure più significative della musica popolare pugliese.
http://www.archiviosonoro.org/puglia/i-protagonisti.html
Entrati in alcuni casi nel circuito dello spettacolo grazie al folk revival degli anni ’70 e all’esplosione della cosiddetta World Music degli anni ’90, gli esecutori più rappresentativi godevano di un riconoscimento particolare presso le comunità di appartenenza. Accanto a voci e volti diventati emblematici perché fissati su nastro e pellicola nel corso delle ricerche, vogliamo ricordare altri esecutori che, documentati nell'Archivio, continuano a tenere vivo il lascito delle generazioni precedenti.
* Aloisi Uccio
* Bandello Antonio
* Carbotti Martino
* Marzo Salvatora
* Petrachi Niceta
* Piccininno Antonio
* Sacco Andrea
* Salvatore Matteo
* Stifani Luigi
* Zurlo Antonio
Infine, una sezione di quel sito è dedicato agli Artisti o Gruppi di Riproposta, ossia di nuove formazioni che in qualche modo continuano il filone della Tradizione locale, esportandola fuori dai confini regionali..
per quanto riguarda il Ballo della Pizzica..
La Pizzica - Tarantata
E' una danza terapeutica individuale o collettiva che prende origine dall'antichissimo rito di guarigione dei tarantati e dal loro pellegrinaggio del 29 giugno presso la Cappella di San Paolo a Galatina.
La "Taranta" che si nasconde negli anfratti, nelle fratture della terra e tra le pietre a secco di muretti e Pajare, è in grado, secondo la credenza popolare, di pizzicare (da cui, appunto, il nome dato alla musica...).
E secondo le stesse credenze popolari, dal morso della tarantola si guariva solo grazie all'ausilio della nostra musica: la "pizzica".
TARANTA
Il rito terapeutico si svolgeva per lo più nelle proprie case dove con l'aiuto della musica, i tarantati, ipnotizzati dal ritmo musicale, entravano in uno stato di incoscienza e ballavano per ore ed ore fino a cadere stremati a terra e portando alla morte la tarantola. La musica quindi, ha un'importanza notevole in questo processo, infatti solo grazie alla "pizzica", suonata con un violino e un tamburello, la vittima si scatenava e riusciva a superare il suo stato di malessere.
La nascita di questo fenomeno nel Salento si fa risalire al 1.100 (anche se alcuni studiosi sono propensi ad anticipare notevolmente la datazione) e si manifesta in maniera diffusa almeno sino a tutto l'800. Oggi il "tarantismo" è praticamente inesistente, ma nel corso dei secoli ha acquistato una sua autonomia culturale e simbolica che lo svincola dal morso dell'insetto come causa diretta.
Ed anche l'interesse per la "pizzica" si è ormai consolidato come codice etnico (culturale e naturale) che si trasmette fra generazioni, unendo giovani, anziani e giovanissimi.
La Pizzica de Core
Si danza soprattutto in occasione di feste popolari, di matrimoni, battesimi e feste familiari. Si tratta di una danza "saltata" di coppia mista e ritmo veloce che viene ballata da tutti, grandi e piccoli, diventando espressione di sentimento di gioia. La pizzica de core rappresenta bene i sentimenti d'amore, la passione e l'erotismo.
Pizzica, il ballo del salento
La Pizzica - Scherma
E' un ballo che va di scena durante la celebrazione di San Rocco a Torrepaduli, frazione di Ruffano nella notte tra il 15 ed il 16 agosto.
E' una danza rituale di coppia, a tema antagonista, che in passato prevedeva la presenza di coltelli (Danza delle Spade) nelle mani dei danzatori e radunava i migliori suonatori di tamburello attorno ad interminabili ronde di danze e sfide che si prolungavano per tutta la notte. Oggi i coltelli sono sostituiti dalle dita: indice e medio della mano colpiscono il petto dell'avversario; tutt'attorno è musica e rullare di tamburelli a cornice. (48)
La scherma è danzata soprattutto da uomini e si accompagna bene con l'armonica a bocca.
archivio sonoro pugliese
E' un sito che raccoglie diverse schede tematiche; tre distinguono le aree geografiche - gargano - murgia - salento, un'altra sezione si occupa di singoli cantastorie protagonisti ..
Alcune tra le figure più significative della musica popolare pugliese.
http://www.archiviosonoro.org/puglia/i-protagonisti.html
Entrati in alcuni casi nel circuito dello spettacolo grazie al folk revival degli anni ’70 e all’esplosione della cosiddetta World Music degli anni ’90, gli esecutori più rappresentativi godevano di un riconoscimento particolare presso le comunità di appartenenza. Accanto a voci e volti diventati emblematici perché fissati su nastro e pellicola nel corso delle ricerche, vogliamo ricordare altri esecutori che, documentati nell'Archivio, continuano a tenere vivo il lascito delle generazioni precedenti.
* Aloisi Uccio
* Bandello Antonio
* Carbotti Martino
* Marzo Salvatora
* Petrachi Niceta
* Piccininno Antonio
* Sacco Andrea
* Salvatore Matteo
* Stifani Luigi
* Zurlo Antonio
Infine, una sezione di quel sito è dedicato agli Artisti o Gruppi di Riproposta, ossia di nuove formazioni che in qualche modo continuano il filone della Tradizione locale, esportandola fuori dai confini regionali..
per quanto riguarda il Ballo della Pizzica..
La Pizzica - Tarantata
E' una danza terapeutica individuale o collettiva che prende origine dall'antichissimo rito di guarigione dei tarantati e dal loro pellegrinaggio del 29 giugno presso la Cappella di San Paolo a Galatina.
La "Taranta" che si nasconde negli anfratti, nelle fratture della terra e tra le pietre a secco di muretti e Pajare, è in grado, secondo la credenza popolare, di pizzicare (da cui, appunto, il nome dato alla musica...).
E secondo le stesse credenze popolari, dal morso della tarantola si guariva solo grazie all'ausilio della nostra musica: la "pizzica".
TARANTA
Il rito terapeutico si svolgeva per lo più nelle proprie case dove con l'aiuto della musica, i tarantati, ipnotizzati dal ritmo musicale, entravano in uno stato di incoscienza e ballavano per ore ed ore fino a cadere stremati a terra e portando alla morte la tarantola. La musica quindi, ha un'importanza notevole in questo processo, infatti solo grazie alla "pizzica", suonata con un violino e un tamburello, la vittima si scatenava e riusciva a superare il suo stato di malessere.
La nascita di questo fenomeno nel Salento si fa risalire al 1.100 (anche se alcuni studiosi sono propensi ad anticipare notevolmente la datazione) e si manifesta in maniera diffusa almeno sino a tutto l'800. Oggi il "tarantismo" è praticamente inesistente, ma nel corso dei secoli ha acquistato una sua autonomia culturale e simbolica che lo svincola dal morso dell'insetto come causa diretta.
Ed anche l'interesse per la "pizzica" si è ormai consolidato come codice etnico (culturale e naturale) che si trasmette fra generazioni, unendo giovani, anziani e giovanissimi.
La Pizzica de Core
Si danza soprattutto in occasione di feste popolari, di matrimoni, battesimi e feste familiari. Si tratta di una danza "saltata" di coppia mista e ritmo veloce che viene ballata da tutti, grandi e piccoli, diventando espressione di sentimento di gioia. La pizzica de core rappresenta bene i sentimenti d'amore, la passione e l'erotismo.
Pizzica, il ballo del salento
La Pizzica - Scherma
E' un ballo che va di scena durante la celebrazione di San Rocco a Torrepaduli, frazione di Ruffano nella notte tra il 15 ed il 16 agosto.
E' una danza rituale di coppia, a tema antagonista, che in passato prevedeva la presenza di coltelli (Danza delle Spade) nelle mani dei danzatori e radunava i migliori suonatori di tamburello attorno ad interminabili ronde di danze e sfide che si prolungavano per tutta la notte. Oggi i coltelli sono sostituiti dalle dita: indice e medio della mano colpiscono il petto dell'avversario; tutt'attorno è musica e rullare di tamburelli a cornice. (48)
La scherma è danzata soprattutto da uomini e si accompagna bene con l'armonica a bocca.
- Spoiler:
http://www.taranta.it/index.html
LA PIZZICA PIZZICA
testi di Giuseppe Michele Gala © 2003
TARANTISMO e PIZZICA PIZZICA: l'euforia e la mitificazione
La cura dei disagi psichici o fisici attraverso la musica e la danza ha sempre destato vivo interesse, perché significa percorrere strade diverse dalla medicina ufficiale e sancire l'esistenza di una pluralità di culture della sanità. Se poi si aggiunge - come nel tarantismo meridionale e nell'argismo sardo - la pregnante componente mitico-simbolica e magico-religiosa della taranta e della coreoterapia, allora il tema si fa persino affascinante; infatti per secoli il fenomeno ha "intrigato" molti medici, viaggiatori stranieri, artisti ed ecclesiastici, i quali, spinti dalla curiosità o per ragioni di studio, si sono recati in Puglia per constatare di persona il fenomeno.
Quasi del tutto estinto il tarantismo, nonostante permanga forte la sua memoria, il Salento si trova oggi a reinterpretare il ruolo della terra del mito aracnideo. Un inaspettato e al contempo costruito entusiamo stanno trasformando musica e danza della zona in prodotti alla moda pronti per essere commercializzati. Attorno al ballo - la pizzica - considerato erroneamente come l'unico capace di "guarire" o di provocare supposti effetti di estraneazione (trance, possessione, esorcismo, endorcismo, ecc.), si è creato un movimento consistente di nuovi "devoti", con le proprie liste informatiche, i raduni, gli idoli, i feticci, il mercato.
Ma se si vuole scavare nel profondo per dare sostanza filologica alla reale pratica dei balli in Puglia e al loro uso ritualizzato, allora diventa obbligatoria la ricerca etnografica, che in realtà pochi praticano metodicamente. Insomma, quali erano le pizziche eseguite realmente dagli anziani? Quali le differenze tra la forma ludica e quella terapeutica? In quali contesti e in quali forme si ballava nei secoli precedenti? La pizzica pizzica può essere ancora un ballo scatenante e liberatorio? Queste alcune delle domande che numerosi giovani ci rivolgono di frequente.
LA PIZZICA PIZZICA
Dal 1980 stiamo perlustrando con varie campagne di indagine la tradizione del ballo in Salento (1980-82, 1988, 2000-2006) alla ricerca delle diverse forme di danza e, via via che la ricerca si allarga anche alle altre province pugliesi, il quadro va facendosi sempre più chiaro e complesso, confortato da documenti cine-video talora sorprendenti.
Area di diffusione e stato di conservazione. Dal Salento, al Tarantino, a tutto il Barese, dal Materano all'area ionica della Basilicata era diffuso sino all'ultima guerra il nome della pizzica pizzica per indicare un ballo vivace di coppia, che affiancava o talvolta si confondeva con la tarantella stessa. Legata al rituale terapeutico del tarantismo, la pizzica pizzica compare come termine coreutico nelle fonti solo alla fine del secolo XVIII. Oggi la pratica viva nelle forme originali del ballo è quasi del tutto estinta (fanno eccezioni solo poche località in area non del Salento leccese), i repertori che si recuperano attraverso le testimonianze esecutive degli anziani sono scarni e impoveriti.
L'uso del fazzoletto. Un tempo il ballo prevedeva anche l'invito con la consegna del fazzoletto da parte della persona che iniziava il ballo verso quella che con cui desiderava ballare; di questo uso c'è ancora traccia nella memoria degli anziani salentini. Lo stesso meccanismo di invito avveniva in tutta la regione e ancora oggi avviene in acune aree della Basilicata e della Campania con apposito canto d'invito codificato.
Brevi cenni morfologici. Dal punto di vista morfologico, i diversi documenti etnografici raccolti in pellicola e in video - grazie alla riesecuzione degli anziani portatori e agli ultimi residui di pratica reale - legano in modo inequivocabile la pizzica pizzica al un più ampio sottogruppo apulo-lucano della tarantella meridionale. Sul piano strutturale vi è molta analogia fra la varianti di pizzica pizzica e le altre tarantelle dell'area apulo-lucana: la danza, principalmente eseguita in coppia (ma non solo) all'interno di una ronda o cerchio di spettatori, suonatori e ballerini, si compone essenzialmente di ballo frontale e giro; tali figure ricorrenti sono arricchite da rotazioni su se stessi, brevi avvicinamenti confidenziali, giri legati e "mosse" di chiaro riferimento sessuale. Pur prevalendo la formula in coppia mista, la pizzica pizzica può essere danzata anche fra donne e fra uomini. In quest'ultima combinazione la pizzica può trasformarsi in scherma danzata, se i ballatori ne conoscono il repertorio e se si crea quel clima di necessaria scherzosa competizione.
PIZZICA SCHERMA
Nel Leccese, nel Brindisino e nel Tarantino si pratica (in molti centri si praticava) da parte di soli uomini la forma duellata della pizzica, detta appunto pizzica scherma o schermata, oppure più semplicemente scherma. Vi sono modi diversi di schermare e gli schermitori sono spesso legati al mondo carcerario o rom stanziale (ne scrive Gramsci nelle “Lettere dal carcere”). Si mima il coltello con le dita della mano, molta parte della gestualità risente dei codici schermitòri e di una simbolica tradizionale non sempre di facile lettura . La semantica gestuale è conservata e trasmessa con riserbo o addirittura segretezza. La partecipazione alla danza-scherma aveva modalità settarie e iniziatorie tipiche delle società segrete: infatti un tempo per entrare nella cerchia degli schermitori bisognava aver avuto lezioni da maestri di riconosciuta fama, passare una sorta di rito di iniziazione (conoscenza delle tecniche, delle regole e degli adepti) e godere dell'altrui considerazione, altrimenti si rischiava di essere beffeggiati dagli altri schermitori.
Una forma analoga, pur se diversa nello stile, è oggi presente nella Calabria meridionale, con la tarantella schermata riggitana (non immune da contatti socio-simbolici della 'ndrangheta). Si hanno comunque tracce di una diffusa presenza un tempo in tutto il sud di questa particolare tipologia coreutica.
LA NEO-PIZZICA
Dalla seconda metà degli anni '90 nel Salento leccese alcuni suonatori e ballerini del mondo teatrale e folk-revivalistico, senza una capillare indagine sul campo, hanno diffuso una neo-pizzica sostanzialmente difforme dalle strutture e dallo stile esecutivo della tradizione, vendendola talvolta come ballo della tradizione. Un entusiastico mercato di nicchia prevalentemente giovanile, sensibile alla creazione di nuovi miti “alternativi” e pronto a lasciarsi andare ad una sorta di “fascinazione collettiva” prodotta dalla riscoperta culturale del tarantismo, ha assunto la pizzica ad emblema ideologico dell'antiglobalizzazione. Grande successo ha avuto infatti la nuova moda coreutica tra i centri sociali giovanili, divenendo un importante mezzo di socializzazione ed un emblema quasi ideologico.
La neo-pizzica si basa su una mescolanza approssimativa di ingredienti preparati con lo scopo di costruire un ballo-simbolo che rappresentasse nel mondo l'immagine del sud e dell'Italia: corteggiamento esasperato attinto dal folklorismo di spettacolo (come il gioco degli sguardi ravvicinati, la testa rigirata e la mimica “caballera”, passettini lenti d maniera, atteggiamenti flamencati o “a torero”, pantomima teatrale di una narrazione erotica (fuga-inseguimento-accettazione), elementi di rituali estatici (rotazioni, dinamiche parossistiche, estraneamenti momentanei) sono stati mescolati e vengono trasmessi da giovane a giovane (non da vecchio a giovane com'è solitamente nella tradizione) durante i grandi concerti di "pizzica-rave” dell'estate salentina o da improvvisati insegnanti in corsi di danza. Secondo ogni buona regola di marketing, la nuova invenzione è sostenuta da qualche finction cinematografica (Pizzicata, Sangue vivo, servizi televisivi, ecc.), da ritrovi musicali di "pizzicati” in tutta Italia e da nuove terminologie “ad effetto”, inesistenti nella tradizione, come: “pizzica de core”, il “ballo della taranta”, la “danza dei coltelli” o la “danza delle spade”, le “tre tarante”, ecc. [vedi scheda successiva].
Gli elementi stilistici e strutturali di maggior diversità della neo-pizzica con la pizzica pizzica tradizionale stanno
- nel diverso rapporto dei corpi col terreno: più battuto ed energico e senza eccessivi abbellimenti la forma tradizionale;
- nella gesticolazione di braccia, polsi e mani: accademica e delicata nella neo-pizzica, robuta e contadina nell'altra;
- nel rapporto visivo tra i ballerini: sguardi fissi e impostati, colli torti e mimiche artificiali nella neo-pizzica, semplice e appena visibe nella tradizionale;
- nella perdita della trama circolare dei percorsi nella nuova forma, molto legato al senso di circolarità - risaltato dalla ronda - quella antica.
Oggi si avverte tra i salentini - soprattutto studiosi di folklore - una tendenza a frenare queste innovazioni esasperate che tengono gli anziani distanti e derubati nel loro ruolo di trasmettitori; si iniziano a fare i dovuti "distinguo” e a privilegiare dimensioni più ridotte e familiari, mentre qualche studente universitario sta avviando ricerche su forme e contesti del ballo, comunciando a distinguere le rare forme tradizionali dal revival.
TARANTA, TARANTISMO E TARANTELLA: dibattito
Il vivace ritorno negli ultimi anni del dibattito culturale sul tarantismo pugliese ha innescato un inatteso processo di valorizzazione di alcune espressioni del patrimonio tradizionale salentino che rischiavano altrimenti la definitiva estinzione: in modo particolare la musica e la danza tradizionale sono diventate un segno di riconoscimento e di recuperata identità dei giovani salentini sino a propagarsi in tutta l’Italia e oltre i confini nazionali negli ambienti legati alla world music. La pizzica non è oggi solo un ballo, è un emblema, un forte richiamo, una griffe, una sorta di nuovo mito culturale che crea moda, spettacolo, turismo, mercato editoriale e musicale. Il Salento si configura in Italia come un importante laboratorio antropologico, nel quale si misurano e si interconnettono bisogni identitari (smantellati con troppa fretta dalle generazioni precedenti) e strade diverse dalla globalizzazione culturale in atto; un laboratorio nel quale si gioca una scommessa sul ruolo che la tradizione potrà avere nella società post-industriale e multimediale e nei futuri processi di turismo di massa e di sincretismi culturali interetnici.
Ma dietro alla diffusa domanda di danza popolare mancano in Salento una capillare ricerca sui balli degli anziani e adeguati studi etnocoreologici; le varie “neo-pizziche” che circolano nei concerti folk sono state reinventate - come si è detto prima - senza un reale confronto e una mutuazione coerente dei modelli tradizionali. Come tutte le mode culturali, la pizzica sta esorbitando dagli ambiti e dalle funzioni che la tradizione le assegnava e viene vissuta con nuovi linguaggi corporei dettati da una visione folkloristica e tardo-romantica della danza. Davanti al rischio di eccessiva spettacolarizzazione e di radicale stravolgimento dei tratti distintivi del folklore salentino, negli ultimi anni da parte di alcuni operatori culturali del settore si è aperto un fecondo dibattito per distinguere fra tradizione e legittima creazione artistica, al fine di limitare gli approcci superficiali e le inesattezze cognitive ed avviare un rapporto più stretto con i portatori della tradizione, quegli stessi anziani che ora sono in gran parte esclusi dal loro ruolo di “maestri”.
Porsi la questione della tutela del patrimonio culturale salentino vuol dire innanzitutto conoscerlo bene.
Il nostro viaggio nella pizzica pizzica nasce da una lunga ricerca sul campo a partire dal 1979 e si avvale del contributo di esperti e di varie angolazioni disciplinari. Ma ci rendiamo conto quanto sia urgente oggi avviare ricerche approfondite sul tarantismo per arricchire la fugace (pur se fondamentale) esplorazione demartiniana, prima che gli ultimi testimoni diretti del fenomeno scompaiano per sempre. Il messaggio più originale, che la nostra associazione cerca di trasmettere da oltre 20 anni, sta nel grande valore da dare alle fonti e alla critica delle fonti, sia storiche che etnografiche.
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
mambu ha scritto:Ho visto che con Capossela è venuto fuori Matteo Salvatore. Propongo allora un piccolo approfondimento su questo straordinario creatore di falsa musica tradizionale, uomo cresciuto nella miseria dei latifondi del Gargano e poi cantando canzoni in voga nelle trattorie mentre viveva nelle baraccopoli romane (più o meno quelle di Brutti, sporchi e cattivi).
Quando nel 1956 un intellettuale, il regista De Sanctis, gli chiese delle canzoni tradizionali - seguendo la moda di quegli anni -, lui prese i soldi, girò le osterie della sua terra dove scoprì che i vecchi ormai cantavano Il Piave mormorava, O sole mio e altre cose pseudopopolari. Finiti i soldi s'inventò un po' di pezzi e li vendette a De Sanctis come pezzi tradizionali.
In questo aneddoto c'è un po' il sunto di Salvatore, vero uomo del popolo che si portò dierto la condanna della miseria anche quando ebbe successo. E visse tra baracche, lusso, imbrogli, menzogne e pure quattro anni di galera per aver ucciso la sua donna ("La povera Adriana morì d'infarto. Io per quattro anni sono uscito dal giro dell'arte" racconta nella sua biografia, con quel misto di pudore e menzogna che i più vecchi tra voi avranno conosciuto nelle culture agricole tradizionali).
Ma è l'uomo che ha cantato questo
Padrone mio (da Myspace-ultimo brano)
Padrone mio ti voglio arricchire
come un cane voglio lavorare
quando sbaglio dammi le botte
voglio la morte non mi cacciare
Ho i figli che vogliono il pane
chi glielo dà? io glielo devo dare.
Padrone mio ti voglio arricchire
Vi propongo la lettura di due brevi articoli, uno dal sito preziosissimo segnalato da Canta
http://www.archiviosonoro.org/puglia/i-protagonisti/334-salvatore-matteo.html
- Spoiler:
Nato ad Apricena nel 1925, Matteo Salvatore è stato il personaggio
più atipico e irregolare della musica popolare pugliese, sia per il suo
particolare rapporto con la tradizione musicale, sempre filtrato da una
fortissima personalità di autore, sia perché entrato precocemente in
contatto, a metà degli anni ’50, con l’industria discografica e il
mondo dello spettacolo.
Dotato di una voce estremamente duttile e di uno stile chitarristico
sobrio ed elegante, di lui non si può parlare né come di un esponente
della tradizione né come di un cantautore “colto”. È stato, piuttosto,
un singolarissimo poeta e cantastorie di vicende di miseria nera, amore
e sopraffazione che affondano le radici nel Gargano della sua infanzia.
Nato in una famiglia poverissima, il piccolo Matteo inizia
precocemente a lavorare come bracciante negli sterminati campi di grano
del Tavoliere. Impara a suonare la chitarra da un cieco che eseguiva
serenate sul repertorio classico napoletano. Dopo una serie di lavori
saltuari, si trasferisce a Roma dove per anni vive in baracca con la
moglie e i tre figli.
In quel periodo, per guadagnarsi da vivere, Matteo canta canzoni
napoletane fra i tavoli dei ristoranti dove viene notato da Claudio
Villa e dal regista Giuseppe De Santis che gli commissiona delle
ballate per il film Uomini e lupi. Inizia anche a incidere per varie etichette, avviando così i suoi travagliati rapporti con il mondo discografico.
Di questo atipico cantastorie si occupano il senatore comunista Franco Antonicelli e Italo Calvino che lo definisce l'unica fonte di cultura popolare, in Italia e nel mondo, nel suo genere. Approda anche alla radio grazie a Otello Profazio che lo presenta nel suo programma Quando la gente canta. Partecipa a tournée con artisti famosi come Claudio Villa e Domenico Modugno e approda persino al Cantagiro.
Nel 1972 pubblica con la RCA in quattro LP il suo capolavoro: Le quattro stagioni del Gargano.
Qualche anno più tardi una nuova tragedia: viene arrestato con l’accusa
di avere ucciso Adriana Doriani, sua compagna e collaboratrice. Quattro
anni dopo, per l’interessamento di amici e estimatori, fra cui Renzo
Arbore, ottiene la revisione del processo e la scarcerazione. Negli
ultimi anni è stato riscoperto dalle generazioni più giovani
soprattutto grazie alle collaborazioni con Vinicio Capossela e Teresa
De Sio.
e uno scritto da Alessio Lega su Rivista Anarchica in occasione delle morte, nel 2005
http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/312/42.htm
- Spoiler:
Un po' di chiarezza
(Chi era Matteo Salvatore)
Se l’Italia avesse un minimo di dignità e d’onore
l’alta Puglia non sarebbe il luogo del culto di Padre
Pio ma di Matteo Salvatore.
Matteo Salvatore è stato un miracolo vivente degli ultimi
cinquant’anni, un grande poeta popolare, un cantante sopraffino
di ineguagliabile musicalità, un ottimo chitarrista con
una tecnica autodidatta ma di audace raffinatezza.
Le origini della sua arte affondavano nella leggenda: le biografie
lo vogliono, pressoché bambino, ad accompagnare un violinista
cieco, tale Pizzicoli, portatore di serenate a pagamento. Sembra
esserci una sorta di reincarnazione del mito d’Omero alla
base della cultura profonda di questo aedo del ’900.
La miseria nera che fa compagnia alla quasi totalità
degli abitanti del paesino d’Apricena (in provincia di
Foggia, dove Matteo era nato nel 1925) è il basso
continuo che accompagna tutte le sue opere, il motivo che
lo spinge ben presto, come tanti suoi conterranei, a spostarsi
a nord. Roma (ma anche Milano, Torino…tutta la via crucis
del poer crist emigrante) lo troverà a esercitare
il nobile mestiere del posteggio nelle trattorie, dove attira
l’attenzione di alcuni intellettuali.
Sono gli anni che preludono la riscoperta del patrimonio popolare
(quello che avrà la sua eclatante rivelazione nello spettacolo
Bella Ciao del Nuovo Canzoniere, presentato al Festival
dei due mondi di Spoleto nel ’64). Sono anni in cui Ernesto
De Martino, Diego Carpitella e Alan Lomax battono la penisola
nel timore (fondatissimo) che presto la televisione di lascia
o raddoppia fagociti la cultura contadina. Gli spiriti
più sensibili se ne sono già accorti.
Matteo canta nelle trattorie romane le canzoni di Napoli, perché
son quelle conosciute che fanno tintinnare la mancia, ma Giuseppe
De Santis, Calvino gli dicono “Matteo, tu sei pugliese.
Perché non canti le canzoni della tua terra?”.
“Non ne conosco” dice Matteo. “Cercale!”
gli ribattono.
E allora, armato di registratore Matteo va ad Apricena a cercare
tali melodie e, non trovandole, si mette a scriverne lui stesso.
Torna e comincia a cantare queste canzoni spacciandole per repertorio
anonimo.
Comporre cantando
Bisogna riflettere a quest’ambiguità di cui lui
si servì, ma a cui molti vollero credere: Matteo inizia
a scrivere canzoni popolari su commissione, egli di
suo è voce, canto; il termine “scrivere”
sarebbe già del tutto improprio nel suo caso visto che
compone cantando. La percezione che si avrà per anni
di Matteo come portatore, cioè memoria vivente ed esecutore
di materiale popolare, è una falsificazione. Troviamo
il suo repertorio inserito nelle grandi collezioni di Folk anni
’70 (dai Dischi del sole in poi), ma Matteo è
un poeta, un musicista, popolare certo, ma raffinatissimo sia
nei versi che nelle melodie.
Se le prime canzoni che registrerà conterranno stucchevoli
ritornelli di becera comicità, ben presto avviene in
lui una sorta di purificazione: Matteo Salvatore diventa il
medium del dolore secolare di un popolo, la sua opera assume
carattere di grande affresco. Non vi è riflessione, le
canzoni non “parlano di”, nemmeno, per intenderci,
attraverso l’umanissimo filtro dell’immedesimazione
deandreiana; sono proprio i personaggi che, senza presentarsi,
si esprimono per voce di Matteo, di modo che l’esperienza
della miseria faccia da sfondo a un discorso che ha le parole
della vita di tutti i giorni.Nella canzone Lu furastiero
[la trovate pure questa su myspace http://www.myspace.com/matteosalvatore] non viene raccontata in modo esplicito la tragedia degli stagionali:
uomini che vagavano a piedi per i paesi del Gargano e del Tavoliere,
prestandosi alla massacrante raccolta dei pomodori, riposando
poche ore a terra sull’aia, guardati in cagnesco dai lavoratori
del posto, i cui salari da fame venivano ulteriormente ribassati
per l’enorme offerta di braccia; nella canzone tutto ciò
è un non detto. Nient’altro che l’impressionistica
descrizione di un notturno in cui il forestiero, stremato, dorme:
Lu furastiero dorme
stanotte sull’aia
Dorme sull’aia alla frescura
E pe cuperta la raccanella
E pe cuscino la sacchettola
La dolcezza struggente della melodia, la nettezza diamantina
dei versi fa di questo, come di quasi tutti i canti di Matteo
Salvatore, una specie di Lied dialettale, un concentrato
inestimabile di concisione e follia.
Le parole di queste canzoni non potevano, come abbiamo detto,
essere scritte perchè Matteo non sapeva scrivere (se
non con estrema difficoltà e già in età
avanzata), dunque son canzoni che nascono senza mediazione letteraria,
dal e per il canto. Questo, si sa, è
un tratto della musica popolare o più in generale della
cultura orale, ma la caratteristica specifica di Matteo sta
nella misura, nel raccoglimento, nel controllo; l’arte
tutta di Matteo Salvatore poggia su un carattere di forte astrazione,
cosa tanto più rara nella tradizione meridionale o mediterranea.
Le sue canzoni, da questo punto di vista, potrebbero essere
accostate a certi canti del De André degli ultimi dischi
(quello di da me riva, o di ho visto nina volare)
e, un po’ più logicamente, le sue melodie accostate
a certe melodie belliniane o para-belliniane (certamente Matteo
conosceva Fenesta ca lucive).
Un grande lirico
Matteo Salvatore possedeva e usava una vocalità particolarissima,
in grado di passaggi vorticosi dai toni gravi al falsetto attraverso
reminiscenze, si direbbe, arabe. Ne Lu pecurere (Lu
pecurere pe li murge vaje / a pasculà le pecore)
la voce si avvita in un melisma che fa pensare alla leggendaria
nota blu. È sinceramente impressionante e distante anni
luce dal vigore un po’ greve dei pur grandissimi cantori
popolari del sud (Rosa Balistreri, Cicciu Busacca). Per dirlo
in una parola Matteo Salvatore non è un cantastorie,
egli è un grande lirico.
Ecco, non vorrei fosse un’ennesima forzatura, ma a me
piace pensare Matteo Salvatore come un bluesman leggendario,
un Blind Lemmon Jefferson pugliese. Anche biograficamente: la
maggior parte dei bluesman erano personaggi violenti e incontrollabili;
la carriera di Matteo fu precocemente spezzata dagli anni passati
in carcere in seguito all’assassinio della sua compagna
Adriana Doriani nel 1973.
Il silenzio che negli ultimi anni si fa intorno a questa vicenda
è rivelatore di un atteggiamento moralistico e falsificante
tipico dell’Italia, dove si tiene il parente strambo chiuso
in cantina, anche se il parente è Van Gogh (o Ligabue),
dove c’è sempre stata una particolare difficoltà
nel confronto fra arte popolare e intellighenzia, dove si può
accettare un cantore popolare come una curiosità antropologica,
sociologica, dove si considera sempre la sua opera una sorta
di materia grezza a cui attingere, ma dove si fa fatica ad ammettere
che l’arte conosce strade che a volte passano lontanissime
non solo dalle accademie, ma anche semplicemente dalle scuole
elementari o dalle nostre vite “rispettabili”.
L’America in questo senso è stato un porto più
franco in cui nessuno si stupisce del rapporto strettissimo
fra le figure leggendarie del Blues (Leadbelly, Robert Johnson)
e i cantautori moderni (Dylan, Springsteen).
Il 27 agosto di questo 2005 Matteo Salvatore è morto.
Per quanto acciaccato ha voluto cantare fino all’ultimo:
il 29 luglio scorso, a Loano, Enrico Deregibus e John Vignola
gli avevano conferito un premio nell’ambito del festival
della musica popolare, quella è stata la sua ultima esibizione.
Prima di questa il Club Tenco, Otello Profazio, Eugenio Bennato,
Daniele Sepe, Teresa De Sio, Vinicio Capossela e qualche altro
avevano fatto il possibile per alleviare a questo maestro la
durezza di una vecchiaia povera.
È però mancata un’attenzione delle istituzioni
culturali (l’unico documentario sulla sua vita è
di produzione francese), mancano pubblicazioni serie su di lui,
a parte un recente racconto/autobiografia della benemerita Stampa
Alternativa, curata dall’ancor più benemerito Angelo
Cavallo (che lo ha accudito come un fratello fino all’ultimo
respiro); manca tuttora (vergogna!) una ristampa in CD della
gran parte dei suoi dischi.
Noi restiamo con il rimpianto di non aver parlato abbastanza
e correttamente di questo meraviglioso artista.
Io resto con il piccolo personale rimpianto di non aver fatto
prima l’articolo su di lui, e sì che me l’ero
ripromesso (e in parte l’avevo già scritto) dall’alba
di questa rubrica. Invece, come nella peggiore tradizione, che
vuole veder celebrati i grandi artisti in occasione o a partire
dalla loro scomparsa, eccomi a versare le lacrime tipografiche
del coccodrillo medio.
Ma aldilà di ogni considerazione di carattere sociale,
morale o personale, l’occasione è buona per cominciare
a fare un po’ di chiarezza sul suo lascito. Matteo è
stato un grandissimo poeta, portatore e rielaboratore di una
cultura altra, che, nonostante i tentativi di sotterramento
della nostra società globalizzata, giunge ancora a scuoterci
dalla notte di Orfeo.
Alessio Lega
Giusto per dare un'idea più ampia vi propongo l'ascolto di una canzone d'amore (purtroppo è l'incisione del 2001, fatta per il Cd allegato a Matteo Salvatore, La luna aggira il mondo e voi dormite. Autobiografia raccontata ad Angelo Cavallo, Stampa Alternativa).
Lu bene mio
Altri brani di miseria bracciantile.. status statùss dominùss
Sempre poveri
E una storia che sembra di Scorza, ma questa è l'Italia non il Perù
Don Nicola si diverte
l'Italia degli anni '30, quella degli 8 milioni di baionette
Figliete figliete figliete!
Lu suprastende (il soprastante... quello che sorvegliava i braccianti a giornata) anche questa su myspace http://www.myspace.com/matteosalvatore
Ma da buon cantore popolano ha anche un ampio repertorio buffo
Le chicchiere de lu paese (con Capossela e Teresa De Sio. Il testo è mei commenti... abbastanza comprensibile anche per i polentoni)
magari anche un po' sporcaccione e giocato sui doppi sensi
La bicicletta
La via d'la funtanela
Nella sua caotica discografia sarebbe da recuperare il cofanetto di 4 Lp Le quattro stagioni del Gargano. Quasi impossibile.
Si può trovare Il lamento dei mendicanti, pubblicato dai Dischi del sole nel 1967 come raccolta di canzoni anonime tradizionali e ristampato anche all'estero, ad esempio nella collana Le Chants du Monde in Francia
http://www.ibs.it/disco/8012855376720/matteo-salvatore-1/lamento-dei-mendicanti.html
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
mambu ha scritto:
Link al messaggio originalelepidezza ha scritto:grazie canta e grazie mambu.
ero certo che tu avresti potuto dipanare il riferimento di capossela..
trovi nel suo repertorio citazioni e commistione?
qua mi chiedi troppo. Citazioni dirette direi di no; c'è una distanza generazione che è quasi una distanza di epoche. Salvatore ha imparato a suonare da un mitico vecchio cieco quasi centenario, Capossela ha fatto il conservatorio;
Salvatore ha conosciuto il sud di prima della rifoma agraria, fatto di analfabetismo, miseria e schiavitù, e l'emigrazione stracciona, quella che si accalcava ai margini delle grandi città per vivere di espedienti e di lavoretti e avanzava letteralmente a dorso di mulo; Vinicio l'emigrazione operaia, miserrima anch'essa ma che aveva come obbiettivo il cantiere e la fabbrica.
Vinicio ha sempre giustamente cantato il suo mondo, che è un mondo urbano, moderno anche se popolato di marginali e disperati. Un mondo di night e sale da balle, magari trasfigurato dalla sua poesia e dal gusto per l'assurdo.
La sua visione del sud è quello di uno straniero, o meglio di uno sradicato
(Sud, fuga dell'anima tornare a sud.... Sudati è meglio e il morso è più maturo e la fame è più fame e la sete è più sete.... da Camera a Sud).
Per semplificare direi che c'è una differenza sostanziale ma un amore di Vinicio per quel mondo poetico, anche per quei suoni, ma non un tentativo d'imitazione.
Forse qualcuno più acuto potrà trovare qualcosa di più preciso...
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
Salvatore ha in sè l'esperienza di vita vissuta di espedienti, di mille mestieri, di stenti, di galera.... e di ritorno a casa (pur avendo vissuto a Roma per anni...poi è finito per tornare "a casa"). Il tale cieco che gli insegno' a strimpellare una chitarra a me l'altra sera ricordava un altro cieco famoso che si inventava storie che poi ci sono state tramandate... (papà Omero ppe capisse..chi non vede, vede lontano perchè non si lascia abbagliare dalle belleviste ihihihihih..)..anche il fatto che il padre abbia scritto insieme a Di Vittorio un canto di libertà-protesta quando chi si occupava di lotte sindacali e bracciantili finiva in galera e in altri casi pure morto ammazzato...testimonia proprio un altro modo di vivere e di affrontare le questioni di Disuguaglianza (con buona pace di noi moderni e viziatissimi bbuonialamentasse sulla pelle altrui..ma questa è un'altra facenna...)..
Non ho davanti le % di migrazione sud-nord del dopoguerra, ma sul fatto che i pugliesi siano tra coloro che in massa hanno affollato almeno un paio delle tre cittadone del triangolo industriale nord-ovest (TO-MI-GE) mi sembra fuori dubbio...
Se mi metto a scorrere anche i nomi di chi ha fatto fortuna nel mondo della canzone o dello spettacolo...beh i pugliesi non son secondi ad altri...Ne volete tre/quattro da valore assoluto nei rispettivi campi?
Un tal Walter Annichiarico vi dice qualcosa?
Un tal Domenico Modugno....o un tal Adriano Celentano?
Un tal Renzo Arbore?
---Di questi quattro, solo D. Modugno ha fatto l'emigrante per qualche anno ...tra TO e Roma...
mentre sia Celentano che Chiari erano figli di seconda generazione (ossia nati da genitori emigranti al nord..)..Arbore è quello che ha solo cambiato città elettiva, inventandosi ogni volta un nuovo programma radio prima...e piu' programmi tv poi..
................................
Ho già detto, ho intenzione di concentrare l'attenzione su Modugno perchè quell'omino è stato un punto imprescindibile che, partito da suoni-parole tradizional-dialettali se n'è poi allontanato, facendo un mix tutto suo tra tradizione-innovazione...
quando inizia, il cantante-tipo italiano e quello col vocione tenorile impostato alla Villa e Togliani....le canzoni parlano di mamme, di giovanotti timidi e fanciulle arrossenti, di malinconie e lontananze...tranne quelle scritte da un pianista napoletano che cantava in dialetto....e di un chitarrista-autore napoletano che riprendeva la tradiz alta della canzone napoletana...lasciando perdere le canzoni strappalacrime del periodo pre e post guerra...
per dar traccia di tutto questo, ricopierò le classifiche dei dischi piu' venduti dei primi anni 50...riportati dal sito
Singoli piu' venduti in Italia - a partire dal 1947
..............................................................
Prendiamo ad es la classifica dei dischi piu' venduti nel 1952 ...
sul sito trovate anche qualche link ad youtube...
Classifica 1952
1. Anema e core - Roberto Murolo [1951/52]
2. Les Feuilles mortes - Yves Montand [1951/53]
3. Vola colomba - Nilla Pizzi
4. Non ti ricordi - Antonio Vasquez [1952/53]
5. C'est si bon - Yves Montand [1951/52]
6. Papaveri e papere - Nilla Pizzi
7. Jezebel - Carla Boni [1952/53]
8. Stelle e lacrime - Nilla Pizzi
9. Madonna delle rose - Oscar Carboni
10. Una Donna prega - Nilla Pizzi
in spoiler trovate la classifica fino al n 100
Scorrendo la lista, almeno a me, colpisce: i pochi nomi dei cantanti in classifica...saranno al max una 15na...e il miscuglio evidente tra la canzone in lingua italiana e in dialetto napoletano. La presenza di canzoni straniere è infinitesimale e le eccezioni sono in lingua francese (vedi Montand in 3' posizione..)
Se guardo o ricordo il modo di cantare dei cantanti, vanno per la maggiore le voci-impostate...tranne due eccezioni: Murolo e Teddy Reno...
.....
Roberto Murolo
http://www.italica.rai.it/monografie/canzone_italiana/pionieri/murolo/index.htm
Non ho davanti le % di migrazione sud-nord del dopoguerra, ma sul fatto che i pugliesi siano tra coloro che in massa hanno affollato almeno un paio delle tre cittadone del triangolo industriale nord-ovest (TO-MI-GE) mi sembra fuori dubbio...
Se mi metto a scorrere anche i nomi di chi ha fatto fortuna nel mondo della canzone o dello spettacolo...beh i pugliesi non son secondi ad altri...Ne volete tre/quattro da valore assoluto nei rispettivi campi?
Un tal Walter Annichiarico vi dice qualcosa?
Un tal Domenico Modugno....o un tal Adriano Celentano?
Un tal Renzo Arbore?
---Di questi quattro, solo D. Modugno ha fatto l'emigrante per qualche anno ...tra TO e Roma...
mentre sia Celentano che Chiari erano figli di seconda generazione (ossia nati da genitori emigranti al nord..)..Arbore è quello che ha solo cambiato città elettiva, inventandosi ogni volta un nuovo programma radio prima...e piu' programmi tv poi..
................................
Ho già detto, ho intenzione di concentrare l'attenzione su Modugno perchè quell'omino è stato un punto imprescindibile che, partito da suoni-parole tradizional-dialettali se n'è poi allontanato, facendo un mix tutto suo tra tradizione-innovazione...
quando inizia, il cantante-tipo italiano e quello col vocione tenorile impostato alla Villa e Togliani....le canzoni parlano di mamme, di giovanotti timidi e fanciulle arrossenti, di malinconie e lontananze...tranne quelle scritte da un pianista napoletano che cantava in dialetto....e di un chitarrista-autore napoletano che riprendeva la tradiz alta della canzone napoletana...lasciando perdere le canzoni strappalacrime del periodo pre e post guerra...
per dar traccia di tutto questo, ricopierò le classifiche dei dischi piu' venduti dei primi anni 50...riportati dal sito
Singoli piu' venduti in Italia - a partire dal 1947
..............................................................
Prendiamo ad es la classifica dei dischi piu' venduti nel 1952 ...
sul sito trovate anche qualche link ad youtube...
Classifica 1952
1. Anema e core - Roberto Murolo [1951/52]
2. Les Feuilles mortes - Yves Montand [1951/53]
3. Vola colomba - Nilla Pizzi
4. Non ti ricordi - Antonio Vasquez [1952/53]
5. C'est si bon - Yves Montand [1951/52]
6. Papaveri e papere - Nilla Pizzi
7. Jezebel - Carla Boni [1952/53]
8. Stelle e lacrime - Nilla Pizzi
9. Madonna delle rose - Oscar Carboni
10. Una Donna prega - Nilla Pizzi
in spoiler trovate la classifica fino al n 100
- Spoiler:
- I singoli più venduti del 1952
1. Anema e core - Roberto Murolo [1951/52]
2. Les Feuilles mortes - Yves Montand [1951/53]
3. Vola colomba - Nilla Pizzi
4. Non ti ricordi - Antonio Vasquez [1952/53]
5. C'est si bon - Yves Montand [1951/52]
6. Papaveri e papere - Nilla Pizzi
7. Jezebel - Carla Boni [1952/53]
8. Stelle e lacrime - Nilla Pizzi
9. Madonna delle rose - Oscar Carboni
10. Una Donna prega - Nilla Pizzi
11. Anema e core - Nilla Pizzi [1951/52]
12. Fra Napule e Milano - Claudio Villa
13. Gigolette - Gino Latilla [1951/52]
14. Li Funtanelle - Sergio Bruni [1952/53]
15. Vent'anni - Oscar Carboni
16. 'A Voce 'e mamma - Claudio Villa
17. Aggio perduto 'o suonno - Teddy Reno
18. Varca lucente - Oscar Carboni [1952/53]
19. Perchè le donne belle - Oscar Carboni
20. 'O principe indiano - Carla Boni [1952/53]
21. Margellina - Sergio Bruni [1952/53]
22. Jezebel - Frankie Laine [1952/53]
23. L'Attesa - Gino Latilla
24. 'O Rammariello - Sergio Bruni
25. T'ho voluto bene (Non dimenticar) - Flo Sandon's [1952/53]
26. Delicado - Percy Faith [1952/53]
27. 'E Cummarelle - Gino Latilla [1952/53]
28. Due gattini - Duo Fasano
29. Gigolette - Claudio Villa [1951/52]
30. Too young (to go steady) - Nat King Cole [1952/53]
31. Desiderio 'e sole - Nilla Pizzi [1952/53]
32. Vecchia America - Quartetto Cetra
33. Bella dispettosa - Claudio Villa
34. Maria è robba mia - Gino Latilla
35. Nustalgia - Franco Ricci
36. Margellina - Nilla Pizzi [1952/53]
37. Vasammoce na vota - Sergio Bruni
38. Un Disco dall'Italia - Gino Latilla
39. Domino - Bing Crosby [1952/53]
40. Campane di Montenevoso - Luciano Tajoli [1952/53]
41. Malinconica tarantella - Gino Latilla
42. Nel regno dei sogni - Nilla Pizzi & Achille Togliani
43. Aggio perduto 'o suonno - Roberto Murolo
44. Malavicina - Franco Ricci
45. Vecchie mura - Achille Togliani
46. Sciummo - Sergio Bruni [1952/53]
47. Libro di novelle - Achille Togliani
48. High noon (Do not forsake me) - Frankie Laine
49. Lettera napulitana - Achille Togliani
50. Ninna nanna ai sogni perduti - Nilla Pizzi
51. Gigolette - Roberto Murolo [1951/52]
52. Jammo belle - Giacomo Rondinella
53. 'E Cummarelle - Antonio Basurto [1952/53]
54. Malavicina - Aurelio Fierro
55. Desiderio 'e sole - Franco Ricci [1952/53]
56. Lettera napulitana - Franco Ricci
57. 'A Rossa - Sergio Bruni
58. Jammo belle - Franco Ricci
59. Ho pianto per te - Claudio Villa
60. Sciummo - Achille Togliani [1952/53]
61. 'A Rossa - Giacomo Rondinella
62. La Collanina - Achille Togliani
63. Desiderio 'e sole - Mario Abbate [1952/53]
64. Il Mambo del trenino - Vittoria Mongardi
65. Maria Cristina - Flo Sandon's
66. Choladas (Dance of the moon festival) - Yma Sumac & Les Baxter
67. Letterine del soldato - Claudio Villa
68. Buffalo Bill - Flo Sandon's
69. Bewitched (bothered and bewildered) - Mantovani Orchestra
70. 'O Ciucciariello - Roberto Murolo
71. Taita Inty (Virgin of the sun God) - Yma Sumac & Les Baxter
72. Quatte passe pe' Tuledo - Sergio Bruni
73. Piazza di Spagna - Claudio Villa
74. A Paris - Yves Montand
75. Core 'ngrato - Roberto Murolo
76. M'hai stregato (Bewitched) - Flo Sandon's
77. Core 'ngrato - Luciano Tajoli
78. M'hai stregato (Bewitched) - Teddy Reno
79. Maria Cristina - Franco e i G.5
80. Core 'ngrato - Nilla Pizzi
Scorrendo la lista, almeno a me, colpisce: i pochi nomi dei cantanti in classifica...saranno al max una 15na...e il miscuglio evidente tra la canzone in lingua italiana e in dialetto napoletano. La presenza di canzoni straniere è infinitesimale e le eccezioni sono in lingua francese (vedi Montand in 3' posizione..)
Se guardo o ricordo il modo di cantare dei cantanti, vanno per la maggiore le voci-impostate...tranne due eccezioni: Murolo e Teddy Reno...
.....
Roberto Murolo
http://www.italica.rai.it/monografie/canzone_italiana/pionieri/murolo/index.htm
- Spoiler:
Nato da Lia Cavalli ed Ernesto Murolo, poeta e autore di brani divenuti "classici" della musica napoletana ("Napule ca se ne va", "Piscatore 'e Pusilleco", "Nun me scetà"), Roberto inizia da ragazzo a suonare la chitarra. Non ancora venticinquenne, entra a far parte del gruppo vocale Mida Quartet (ispirato agli statunitensi Mills Brothers), con il quale tra 1939 ed il '46 è in giro per l'Europa, proponendo un repertorio internazionale e di canzoni italiane. A guerra finita, torna in patria ove prende ad esibirsi al Tragara Club di Capri: il suo stile sussurrato ed essenziale da antico chansonnier, basato sulla voce seduttiva e calda accompagnata solamente dalla chitarra, rappresenta un valido aggiornamento della tradizione canora indigena, destinato a far proseliti (un nome per tutti, Fausto Cigliano). Il riscontro è subito positivo: i suoi primi 78 giri, frequentemente trasmessi dalla radio, conoscono un grande successo e per il nostro inizia anche una fortunata attività cinematografica (che lo vede apparire, per citar dei titoli, in "Catene" e "Tormento" di Raffaello Matarazzo). L'interesse per il repertorio partenopeo lo conduce, sin dal 1956, a compiere approfonditi studi sulla materia: il risultato è la pubblicazione - tra il 1963 ed il '65 - dei dodici album a 33 giri di "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea", seguita - a cominciar dal '69 - da quella d'una serie di dischi monografici dedicati a poeti del valore di Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, Libero Bovio, E.A. Mario e Raffaele Viviani. Il vastissimo repertorio di Murolo include, a questo punto, capolavori quali "Munasterio 'e Santa Chiara", "Vierno", "Sciummo", "Luna Caprese", "Scalinatella", "Tammurriata nera", "'Na voce, 'na chitarra e 'o ppoco 'e luna"; ma, valido compositore, egli propone pure suoi brani, da "'O ciucciariello" (1951) a "Torna a vucà" (1958), da "Sarrà... chi sa" (1959) a "Scriveme" (1966). In seguito a vicissitudini giudiziarie, la sua attività subisce un certo rallentamento. Solo nel 1990 se ne segnala il ritorno alla sala d'incisione: in "'Na voce, 'na chitarra" interpreta da par suo pezzi di altri colleghi, da "Spassiunatamente" di Paolo Conte a "Caruso" di Lucio Dalla. E' l'inizio di una seconda giovinezza, che lo vede nell' album "Ottantavoglia di cantare" (1992) duettare assieme a Mia Martini ("Cu'mmè") e Fabrizio De André ("Don Raffaè"), mentre in "Tu si' 'na cosa grande" (1994), un omaggio a Domenico Modugno, è Amalia Rodriguez a fargli compagnia in "Anema e core". L'attività dei concerti, ripresa con intensità, s'interrompe nel 1997; il commiato discografico è affidato a "Ho sognato di cantare" (2002), undici canzoni d'amore realizzate con autori e musicisti della sua città.
Francesco Troiano
- Spoiler:
- Cresciuto a biscotti e...melodie napoletane, Eduardo mostra prestissimo il suo talento chitarristico. A soli 9 anni già esegue con maestrìa le canzoni del patrimonio artistico partenopeo.
Comincia gli studi classici con Pasquale Serrano, componente, come il padre Ettore, dell’Accademia Calace ed entra presto a far parte di varie formazioni strumentali, spaziando con disinvoltura dalla musica colta alla canzone napoletana, della quale, grazie alla sua sensibilità artistica, avrà per tutta la vita un crescente culto ed amore.
Prezioso perfezionista e raffinato tecnico dello strumento, viene invitato, nel 1953, dal Prof. Marciano,per dirigere uno dei primi corsi di chitarra classica presso il Liceo Musicale di Napoli, che desta grande interesse nazionale.
Negli anni 50 e 60, comincia , inoltre, a legare il suo nome ad una napoletanità di alta tradizione musicale. Collabora con Michele Galdieri, Ettore De Mura, Giovanni Sarno, Max Vajro , Mario Stefanile e Roberto De Simone.
Ogni domenica mattina il popolo partenopeo ascolta “Spaccanapoli” in radio, di cui Eduardo cura la parte musicale e accompagna i più importanti cantanti dell’epoca, Sergio Bruni, Roberto Murolo, Amedeo Pariante e tanti altri. Con Murolo, in particolare, instaura una strettissima collaborazione che sfocierà in un progetto, edito Durium, che tuttora rappresenta la più importante e minuziosa collana di canzoni napoletane incisa su vinile: Antologia della canzone napoletana. Roberto, con la sua voce calda e intensa, interpreta deliziosamente nell’Antologia tutte le “pagine” più importanti della storia musicale partenopea dal 1200 (Canto delle Lavandaie) fino agli anni 60. Eduardo è l’anima del progetto. Intraprende un grande lavoro di ricerca, di scrittura musicale, di trascrizione ed arrangiamento oltre a suonare, con il suo “tocco” inconfondibile, la sua chitarra, unico strumento protagonista. Solo nelle prime incisioni, la sua esecuzione viene affiancata da quella di Alberto Continisio.
Comincia, negli stessi anni, un periodo denso di impegni e soddisfazioni : dischi, programmi e documentari RAI e per la TV francese, colonne sonore di film ( “Tre passi a Nord”, “Un marito per Anna Zaccheo”), spettacoli teatrali (anche con il suo grande “omonimo” De Filippo) , partecipazioni ad opere del San Carlo come chitarra solista , concerti
(a Parigi : Salle Gaveau, Teatro dei Campi Elisi,
a Roma nel Teatro Sistina e al Teatro delle Arti, al Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli e all’Accademia), e recitals da solista e in complessi da camera.
Tra un impegno e l’altro.....trova il tempo di legarsi, sentimentalmente, all’ artista Vincenza Paesano (in arte Enza Dorian), cantante lirica che predilige il repertorio napoletano e lo porta in giro per il mondo (Canada, Sud America, Belgio) affianco a grossi personaggi dell’epoca (Nunzio Gallo , Tito Schipa jr, Pina Lamara , Vera Nandi, Achille Togliani).
Nella vita di Eduardo, grande ricercatore e musicologo, l’amore per la chitarra lo spinge a dedicarsi con tutto se stesso all’ attività didattica.
La sua scuola, intitolata al chitarrista partenopeo Ferdinando Carulli, è inevitabile mèta di tanti giovani e non, appassionati dello strumento.
Diventa un punto di riferimento del fermento artistico cittadino. Maestro di chitarra, di napoletanità e di vita. Con la sua grande personalità e cultura si fa amare e stimare dai propri allievi che traggono da lui insegnamenti tecnici ma sopratutto esempi di dedizione al proprio lavoro ed imparano ad amare la propria città, Napoli, con tutte le sue tradizioni e contraddizioni.
Il suo studio in via Aniello Falcone è un irripetibile contenitore di oggetti e di atmosfera partenopea: Una eccezionale collezione di Pulcinella, in sculture e quadri, libri e partiture ovunque, opere pittoriche di grandi maestri napoletani, chitarre di ogni epoca e misura, mandolini e strumenti tradizionali.
Tra i suoi allievi, oltre ai già citati Sergio Bruni e Roberto Murolo, tanti altri artisti che di lì a poco avrebbero brillato nel firmamento della musica napoletana e mondiale: Edoardo ed Eugenio Bennato, Fausto Cigliano, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere, Corrado Sfogli, Mauro Di Domenico e, ancora, i concertisti Mimmo D’Aquino, Mauro Quattrocchi, Mario Fragnito e Lucio Materazzo, alcuni dei quali, oggi, docenti di Conservatorio.
Nel 70, egli riceve, a Castellammare, il premio Carulli, per i suoi meriti artistici e didattici.
Dal 1972, Eduardo accetta di dirigere la cattedra di chitarra del Conservatorio “D.Cimarosa” di Avellino. Inoltre è sovente membro di Commissione di esame , sia di Conservatorio che di concorsi chitarristici nazionali ed internazionali.
“Autore raffinato di brani per chitarra solista (“Tarantella”, “Fantasia ‘e culure” “Moresca” “Orientale”, ”Cale Capresi” “Alghe Marine”, “Tarantella cu’ Pulicenella”, “Voci dal mare”,etc....), molte di esse edite dalla Bèrben, si è anche cimentato nella composizione di canzoni, su testi di Maria Murolo, Pisani, Tolino e De Liguori. Con Roberto Murolo scrive una commuovente preghiera, “Amore Signore”.
Eduardo, un’ artista che Napoli ha amato e che ha lasciato un segno indelebile nel mondo della musica cittadina e non.
Giuseppe Marotta, gli dedicò la poesia “'A chitarra” , e altri versi gli furono dedicati dal celebre pittore e poeta Giovanni Panza.
Alla sua dolorosa scomparsa, i suoi “storici” allievi, vollero organizzare uno spettacolo in sua memoria.
In un Teatro Mercadante gremito di persone, il 3 Gennaio 1994, si esibirono tutti i suoi discepoli” e amici di sempre: Bennato, Sergio Bruni, Murolo, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, riunita per l’occasione con i componenti “storici” Peppe Barra, Giovanni Mauriello, e , naturalmente Trampetti, Sfogli, Fausta Vetere ed Eugenio, poi, i grandi concertisti Alirio Diaz, venuto apposta dal Venezuela , Mario Gangi, Umberto Leonardo, il duo Fragnito-Matarazzo, Mauro Di Domenico, con il padre Lello. Una citazione particolare merita l’ esibizione della sua famiglia nell’ interpretazione di “Serenatella Piccerella”, quella canzone che, dopo 70 anni, accompagnava la sua anima, come nella nascita, verso il riposo eterno. Sul palco il fratello Mario con il mandolino del padre, i nipoti Adele, Ettore (con la moglie Angela), Rossella e Gianfranco a cui toccò imbracciare,per la prima volta, la amata, inseparabile chitarra di zio Eduardo. La “Gallinotti”, compagna di una vita d’artista , di un grande napoletano che, come disse Roberto De Simone alla sua scomparsa, apparteneva ad una specie in via d’estinzione.
Il 14 Marzo 2003, anche Roberto Murolo,
all’età di 91 anni, raggiunge i suoi amici “grandi napoletani”.
E’ un momento molto triste per tutta la città di Napoli.
Sul giornale IL MATTINO del giorno dopo si leggono le parole di un altro grande artista napoletano, Pino Daniele, che ricorda così, testualmente, Roberto ed Eduardo :
“.....Io ho avuto il privilegio di incontrare Roberto, di incrociare la mia chitarra con la sua voce, di emozionarmi pensando quando al suo servizio c’era la sei corde di un maestro chiamato Eduardo Caliendo. Ecco, ho fatto un sogno, che Murolo, Carosone e Caliendo si ritrovino, chissà dove, per formare il più strepitoso trio della storia della musica napoletana, anzi, italiana......”
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
Facciamo lo stesso giochino-classifica nel 1956 :occhioni: ?
Classifica singoli piu' venduti nel 1956
# Maruzzella - Renato Carosone [1955/57]
# Guaglione - Aurelio Fierro [1956/57]
# Love is a many splendored thing - The Four Aces and Al Alberts [1956/57]
# Mambo italiano - Rosemary Clooney [1955/56]
# Io, mammeta e tu - Renato Carosone
# Piccerella - Claudio Villa [1956/57]
# Giuvanne cu 'a chitarra - Renato Carosone
# Smile - Nat King Cole [1955/56]
# Oho aha - Caterina Valente
# Aprite le finestre - Franca Raimondi
Se scorrete gli altri titoli, troverete tra gli italiani nomi nuovi...Modugno e Buscaglione...e l'avvento di un tot numero di cantanti USA ...Presley, Perry Como..F. Sinatra...
......
Carosone è un pianista-cantante napoletano che nell'arco degli anni 50 ebbe notevole successo pur cantando prettamente in dialetto napoletano....canzonette dal tema leggero e canzonatorio che spesso erano una non velata presa in giro proprio della canzone napoletana-italiana melensa, malinconica, strappalacrime che allora era in voga...
Biografia in Spoiler..
Caravan petrol? Tu vuò fà l'americano? Torero? O sarracin? E la barca torno' sola? Io mammeta e tu? ....Io mammetà e tu fu scritta con Modugno
Classifica singoli piu' venduti nel 1956
# Maruzzella - Renato Carosone [1955/57]
# Guaglione - Aurelio Fierro [1956/57]
# Love is a many splendored thing - The Four Aces and Al Alberts [1956/57]
# Mambo italiano - Rosemary Clooney [1955/56]
# Io, mammeta e tu - Renato Carosone
# Piccerella - Claudio Villa [1956/57]
# Giuvanne cu 'a chitarra - Renato Carosone
# Smile - Nat King Cole [1955/56]
# Oho aha - Caterina Valente
# Aprite le finestre - Franca Raimondi
- Spoiler:
- # Musetto - Quartetto Cetra
# 'O Russo e 'a rossa - Renato Carosone [1956/57]
# La Colpa fu... - Ugo Molinari
# Suspiranno 'na canzone - Aurelio Fierro
# Amami se vuoi - Tonina Torielli
# Thirteen women - Bill Haley
# Pota po' - Aurelio Fierro
# The Last time I saw Paris - Len Mercer
# La Vita è un paradiso di bugie - Luciana Gonzales
# Love walked in - Joe Loss
# Manname 'nu raggio 'e sole - Nunzio Gallo
# The River of no return - Marilyn Monroe
# L'Amore è una cosa meravigliosa - Flo Sandon's [1956/57]
# 'E Rrose d' 'o core - Tonina Torrielli
# Guaglione - Renato Carosone [1956/57]
# 'A Palummella - Aurelio Fierro
# Domani - Renato Carosone [1956/57]
# Vino vino - Renato Carosone
# Peppeniello 'o trumbettiere - Claudio Villa
# Suspiranno 'na canzone - Giacomo Rondinella
# Passione amara - Claudio Villa
# Mes mains - Gilbert Becaud
# Mambo italiano - Renato Carosone
# Dream - Frank Sinatra
# Ricordate Marcellino - Quartetto Cetra
# Butta la chiave - Van Wood
# Marcellino pan y vino (Ricordate Marcellino) - Carla Boni & Gino Latilla
# L'Ultima volta che vidi Parigi (The last time I saw Paris) - Carla Boni
# Musetto - Domenico Modugno
# La Donna riccia - Domenico Modugno
# Mambo bacan - Sophia Loren
# Cherry pink and apple blossom white (Cerisier rose) - Eddie Calvert
# Nota per nota - Ugo Molinari
# Albero caduto - Ugo Molinari
# Domani - Julius LaRosa [1956/57]
# The Man with the golden arm - Elmer Bernstein
# Mambo italiano - Franco e i G.5
# The Rose tattoo - Percy Faith
# Heartbreak Hotel - Elvis Presley
# Refrain - Lys Assia
# Qualcosa è rimasto - Tonina Torrielli
# Tutti frutti - Elvis Presley [1956/57]
# Ho detto al sole - Gianni Marzocchi
# Mambo italiano - Carla Boni
# Due teste sul cuscino - Ugo Molinari
# Porfirio Villarosa - Fred Buscaglione
# Il Cantico del cielo - Tonina Torrielli
# Il Trenino del destino - Franca Raimondi
# Io songo americano - Johnny Dorelli
# 'A Frangesa - Katyna Ranieri
# Smile - Frank Chacksfield [1955/56]
# O baby kiss me - Johnny Dorelli
# Dincello tu - Claudio Villa
# Ricordate Marcellino - Van Wood
# Baby bu - Van Wood
# The Man with the golden arm - Ted Heath
# Un Po' di cielo - Quartetto Cetra
# Spaghetti cha cha cha - Van Wood
# Pescava i gamberi - Carla Boni & Gino Latilla
# Me que me que - Van Wood
# Unchained melody - Roy Hamilton
# Hound dog - Elvis Presley
# Guitar boogie - Arthur Smith
# Butta la pasta Teresa - Van Wood
# Baby bu - Carla Boni & Gino Latilla
# Take my love - Mantovani Orchestra
# Hummingbird - Frankie Laine
# L'hai voluto tu - Claudio Villa
# Che m'e' 'mparato a ffa' - Sophia Loren
# Zingarella tu non lo sai - Claudio Villa
# T'è piaciuta - Renato Carosone
# Croce di oro (Cross of gold) - Nilla Pizzi
# Ciumachella - Teddy Reno
# Non illuderti - Marino Barreto jr
# Ne' guaglio' - Maria Paris
# La la lu - Peggy Lee
# Sorridi - Paola Bolognani
# Il Gattino sulla tastiera (Kitten on the keys) - Renato Carosone
# The Rose tattoo - Lita Roza
# The Rose tattoo - Perry Como
Se scorrete gli altri titoli, troverete tra gli italiani nomi nuovi...Modugno e Buscaglione...e l'avvento di un tot numero di cantanti USA ...Presley, Perry Como..F. Sinatra...
......
Carosone è un pianista-cantante napoletano che nell'arco degli anni 50 ebbe notevole successo pur cantando prettamente in dialetto napoletano....canzonette dal tema leggero e canzonatorio che spesso erano una non velata presa in giro proprio della canzone napoletana-italiana melensa, malinconica, strappalacrime che allora era in voga...
Biografia in Spoiler..
- Spoiler:
http://www.italica.rai.it/index.php?categoria=biografie&scheda=canzone_carosone
Diplomatosi in pianoforte all'età di diciassette anni presso il conservatorio di San Pietro in Majella, è subito scritturato da una compagnia d'arte varia ed inizia la sua attività in Africa, prima a Massaua, poi ad Asmara ed infine ad Addis Abeba, prestando pure servizio militare. Rientra in Italia nel 1946, ad ostilità finite e dopo quasi un decennio d'assenza. Nel 1949, scritturato da un nuovo locale napoletano, lo Shaker Club, dà vita al Trio Carosone: condividono l'avventura l'olandese Peter Van Wood - tra i primi a suonare da noi la chitarra elettrica, in seguito autore di brani quali "Tre numeri al lotto" (1949) e "Via Montenapoleone" (1954) - ed il fantasioso Gegè Di Giacomo, batterista versato per la comicità. Il successo del gruppo è immediato, con un repertorio influenzato dal jazz - Fats Waller, soprattutto - ed in parte fondato sulla garbata ironizzazione di canzoni della tradizione napoletana ("Scalinatella", "Anema e core", "Luna rossa") od italiana ("E la barca tornò sola"). Quando Van Wood decide di lasciare per recarsi in America, la band s'allarga dapprima a quartetto e, successivamente, a sestetto. La notorietà in continuo aumento - rafforzata dalle esibizioni al locale di Sergio Bernardini, la Bussola di Focette, in Versilia - porta il nostro ad incidere, tra il 1954 ed il 1958, i sette 33 giri di "Carosello Carosone", ove sono raccolte gran parte delle sue irresistibili composizioni. Intanto nei concerti, divenuti degli autentici spettacoli - l'introduttivo "Canta Napoli" di Gegè di Giacomo, i dialoghi singolari ad inframmezzare le esecuzioni, l'uso di oggetti in tema (vedi la penna da indiano per "Il pellerossa") - destinati a terminare col coinvolgimento del pubblico, vengono eseguiti in maniera travolgente tutti i classici di Carosone: "Maruzzella" (1955), dedicata alla moglie e scritta assieme ad Enzo Bonagura; "Tu vuo' fa' l'americano" (1956), che inaugura in maniera felicissima la collaborazione col pittore-paroliere Nicola Salerno, in arte Nisa; "O' sarracino" (1958), dal ritmo travolgente; "Torero" (1958), in testa per due settimane alle classifiche di vendita Usa e che conoscerà oltre trenta versioni in lingua inglese; "Caravan Petrol" (1959), eseguita col turbante in testa da Di Giacomo. Un lungo tour, partito da Cuba e conclusosi alla Carnegie Hall di New York il 5 gennaio 1957 con esiti trionfali, dà conto della straordinaria popolarità del musicista campano: tuttavia non gli impedisce nel '60 di annunciare, all'apice della carriera, il proprio ritiro dalle scene ("per scendere dalla ribalta - dirà poi - mentre ero ancora vivo"). Il suo silenzio, poche volte interrotto - il concerto alla Bussola nel '75, un disco nell'82, la non memorabile partecipazione al Sanremo dell'89 - durerà oltre quarant'anni, non bastevoli a far piombare nell'oblio la sua inimitabile arte.
Caravan petrol? Tu vuò fà l'americano? Torero? O sarracin? E la barca torno' sola? Io mammeta e tu? ....Io mammetà e tu fu scritta con Modugno
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
mambu ha scritto:Scusa se torno un pochino indietro, Canta
Quella di suo padre e Di Vittorio è una delle tante balle che Salvatore ha raccontato per "darsi un tono". Dopotutto era ben accolto e coccolato dagli ambienti di sinistra e forse ha voluto attribuirsi un quarto di nobiltà, e in questo dimostrò ancora di più quella mentalità da poar christ che lo imprigionò tutta la vita.
Altrove, forse più sinceramente, parla di suo padre che per un soldo cantava le orazioni ai morti, facendo incazzare il prete che gli mandava dietro i carabinieri per non avere un concorrente.
Sull'emigrazione interna ci sarà sicuramente qualche sito, ma non avendo tanto tempo e non essendo bravo a ravanare segnalo un vecchio libro molto documentato e pieno di grafici e tabelle
Ugo Ascoli, Movimenti migratori in Italia, BO, 1979
Sicuramente reperibile in molte biblioteche.
(per tutto il discorso che vuoi fare non sarebbe male tener bene presenti i fatti storici e sociali del periodo, quindi da bravi, voi seguaci di Canta, studiate )
dal libro di Ascoli si può vedere come i pugliesi in termini assoluti furono secondi solo ai siciliani nelle migrazioni interne. Però si concentrarono soprattutto su Roma nell'immediato dopoguerra e poi su Milano. Genova molto meno e Torino in modo significativo solo negli anni 60. La maggior parte dei migranti era della grande zona agricola del foggiano e del barese, dove c'era appunto una grande tradizione di lotte bracciantili, e i migranti venivano spesso da quelle famiglie che per motivi politici furono escluse o meno beneficiate dalla riforma agraria iniziata nel 1950.
Continuiamo con Carosone e il mitico autore di Non ho l'età (Nisa)
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
e non so documentare sulla veridicità-falsità di quell'aneddoto su canzonetta tra Di Vittorio e papà poverodiavolo Salvatore....quello che posso immaginare è che i due avevano lo stesso "mondo di indifesi alle spalle" e quel mondo ha contemporaneamente una forza e una fragilità che parecchi avevano come propriomondo di provenienza...e parlo proprio di quelle persone che dal secondo dopoguerra ai primi annisessanta fecero fagotto e da contadini di terra povera si trasformarono in popolazione di urbane periferie...fenomeno di cui ha scritto e filmato e raccontato in tv un tale delle tue parti...un tal PPP che credo scrisse anche qualcosa in dialetto per Endrigo...ma mink..il titolo della canzone non me lo ricord....
cmq, non si capisce un'emerito nisba di quel periodo - anni 50 - se non si considera che quel decennio fu sostanzialmente un decennio di brusco passaggio da una società italiana prettamente agricola e rurale...ad una società ndustrioso-urbana..
io non so dove diamine lessi...ai tempi dell'università, che in soldoni, l'emigrazione meridionale verso le città nord-ovest era fatta sostanzialmente da poveri-cristi, i cosiddetti terroni che arrivavano su con la valigia di cartone, ospitati da qualche paesano che già stava su...finchè trovato un lavoro e un buco-casa, richiamavano su mogli e figlioli, mentre l'emigrazione verso Roma è piu'antica e composita, essendone parte non solo la parte di popolazione piu' povera e senza mezzi, ma anche quella fetta che si trasfer' in quella città ma con professionalità specifiche e cmq legate al posto fisso pubblico....penso alla Pubblica Amministrazione centrale..uffici pubblici ...ministeriali e non..
Tutto questo c'entra con la canzone? Si che c'entra...perchè è proprio in quel periodo che la canzone smetterà di occuparsi solo di temi "privati-da fidanzatini" per aprir taccuini e suoni a tutto il circondario...
Se penso al testo di "amara terra mia" o "vecchio frac" ..non mi viene in mente il ragionare di un singolo che parla di singoli..ma di un singolo che parla di molti, indicando qualcosa che non riguarda solo sè, ma nel caso di vecchiofrac, di un periodo che si chiude per sempre..per avviare qualcosa che ancora non c'è (e gli anni 50 sono un decennio di attesa...di fuga da un periodo di macerie e di disfatte verso qualcosa che ancora non si sa come sarà...). Rassegnateve: su Vecchiofrac ho una valangata di cose da scrivere
cmq, non si capisce un'emerito nisba di quel periodo - anni 50 - se non si considera che quel decennio fu sostanzialmente un decennio di brusco passaggio da una società italiana prettamente agricola e rurale...ad una società ndustrioso-urbana..
io non so dove diamine lessi...ai tempi dell'università, che in soldoni, l'emigrazione meridionale verso le città nord-ovest era fatta sostanzialmente da poveri-cristi, i cosiddetti terroni che arrivavano su con la valigia di cartone, ospitati da qualche paesano che già stava su...finchè trovato un lavoro e un buco-casa, richiamavano su mogli e figlioli, mentre l'emigrazione verso Roma è piu'antica e composita, essendone parte non solo la parte di popolazione piu' povera e senza mezzi, ma anche quella fetta che si trasfer' in quella città ma con professionalità specifiche e cmq legate al posto fisso pubblico....penso alla Pubblica Amministrazione centrale..uffici pubblici ...ministeriali e non..
Tutto questo c'entra con la canzone? Si che c'entra...perchè è proprio in quel periodo che la canzone smetterà di occuparsi solo di temi "privati-da fidanzatini" per aprir taccuini e suoni a tutto il circondario...
Se penso al testo di "amara terra mia" o "vecchio frac" ..non mi viene in mente il ragionare di un singolo che parla di singoli..ma di un singolo che parla di molti, indicando qualcosa che non riguarda solo sè, ma nel caso di vecchiofrac, di un periodo che si chiude per sempre..per avviare qualcosa che ancora non c'è (e gli anni 50 sono un decennio di attesa...di fuga da un periodo di macerie e di disfatte verso qualcosa che ancora non si sa come sarà...). Rassegnateve: su Vecchiofrac ho una valangata di cose da scrivere
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
mambu ha scritto: e io aspetto con ansia di leggere.
sull'immigrazione a Roma ricordo molte cose le libro di Portelli, L'ordine è già stato eseguito, che accennava a due periodi espansivi: la Roma umbertina neocapitale e gli anni dell'espasione burocratica dello stato fascista.
Come dicevi tu era un'immigrazione a due facce: i funzionari statali e lavoratori a quel giro collegati, quindi principalmente piccoli e medi borghesi; e la plebe funzionale alla crescita della città, cavatori e muratori per primi, ma anche piccoli commercianti, artigiani, bottegai, persone di servizio (le mitiche balie friulane che già avevano invaso le grandi città del nord).
Nel dopoguerra ci fu invece una vera ondata di miseria su Roma da un po' tutte le zone del sud: e si formò quella cinta di baracche che l'ha circondato fino addirittura agli anni '80.
PPP non scrisse esplicitamente per Endrigo, ma dietro sua proposta gli propose di adattare una delle poesie friulane di La miej zoventut (La meglio gioventù). Endrigo fece dei minimi adattamenti alla traduzione pasoliniana e nacque
Il soldato di Napoleone (1962, ma questa è la versione live del 1970)
ovviamente censurata dalla Rai.
Testo friulano e traduzione italiana
- Spoiler:
IL
SOLDÀT DI NAPOLEON
«Adio,
adio, Ciasarsa, i vai via pal mond,
mari e pari, iu lassi, vai cun Napoleon.
Adio, veciu paìs, e cunpàins zovinùs,
Napoleon al clama la miej zoventùt.»
Co al leva il soreli, al prin lusòur dal dì,
Visèns cu’l so ciavàl di scundiòn l’è partìt.
A ciavàl ch’al coreva, di lunc su il Tilimìnt
pai magrèis di Codròip, pai boscùs di Ciamìn,
e co a suna misdì, al soreli leòn,
Visèns al si presenta a di Napoleon.
Co son passàs siet mèis a son in miès la glas
a conquistà li Rùssiis, pierdùs e bandunàs,
co son passàs sièt dis a son in miès il zèil
tali grandis Polòniis, firìs e prisonèirs.
Scaturlt il ciavàl par la nèif al s-ciampava
e Visèns parsora che al savariava:
la nèif al la bagnava cu na ria di sanc,
i vuj si iu platava cu la so rossa man.
«Fèrmiti, ciavàl, fèrmiti ti prej,
ch’a è ora ch’i ti dedi una mana di fen.»
Il ciavàl al si ferma e al vuarda ilso paròn,
che ormai al mòur di frèit, cu’l vuli quièt e bon.
«Sta fer, veciu, sta fer, che prin vuej bruschinàti
schèn ch’i mòur di frèit, e i sedi disperàt.»
Cu laso baionèta a ghi squarta la pensa
e al met a tet li drenti la vita ch’a gli vansa.
Susana cun so pari passa par li cu’l ciar
e a jot il zuvinìn tai vìssars dal ciavàl.
«Ali, pari, salvànlu chistu puòr soldàt
ch’al mòur ta li Polòniis da duciu bandunàt.»
«Cui i seisu, soldàt, vignùt tant di lontàn?»
«I soi Visèns Colùs, un zovinùt taliàn:
i vuèj puartati via ‘pena ch’i soj vuarìt,
parsè che in tal sen i to vuj mi àn ferìt.»
«No, no, ch’i no ven via, ch’i mi sposi sta Pasca,
no, no, ch’i no ven via, sta Pasca i sarài muarta.»
La Domènia uliva duciu doi a planzèvin,
e un cun l’altri a planzi di lontàn si viodèvin.
Di Lùnis sant si viòdin in te l’ort di scundiòn,
e coma doi colomps a si dan un bussòn.
Di Zòiba sant ch’a nàssin li rosis e i flòurs,
s-ciàmpin da li Polòniis par passudà l’amòur.
La Domènia di Pasca che dut il mond al cianta
a rivin nemoràs ta la ciera di Fransa.
(la grafia friulana è scorretta ma non so come fare certi accenti)
IL
SOLDATO DI NAPOLEONE
«Addio,
addio, Casarsa, vado via per il mondo,
il
padre e la madre li lascio, vado via con Napoleone.
Addio,
vecchio paese, e compagni giovincelli,
Napoleone
chiama la meglio gioventù.»
Quando
si alza il sole, al primo chiaro del giorno,
Vincenzo
col suo cavallo, di nascosto se n’è partito.
A
cavallo correva, lungo il Tagliamento,
per
i magredi di Codroipo, per le boschine di Camino,
e
quando suona mezzodì, sotto il solleone,
Vincenzo
si presenta a Napoleone.
Come
furono passati sette mesi, sono in mezzo al ghiaccio
a
conquistare la Russia, perduti e abbandonati;
come
furono passati sette giorni, sono in mezzo al gelo
della
grande Polonia, feriti e prigioneri.
Spaventato
il cavallo fuggiva per la neve,
e
sopra Vincenzo che delirava:
la
neve la bagnava con una riga di sangue,
gli
occhi se li nascondeva con la sua rossa mano.
«Fermati,
cavallo, fermati ti prego,
che
è ora che ti dia un mannello di fieno.»
Il
cavallo si ferma e guarda il suo padrone,
che
ormai muore di freddo, col suo occhio quieto e buono.
«Sta
fermo, vecchio, sta fermo, che voglio bruschinarti,
benché
muoia di freddo e sia disperato.»
Con
la sua baionetta gli squarcia il ventre,
e
dentro vi ripara la vita che gli avanza.
Susanna
con suo padre passa di lì sul carro,
e
vede il giovinetto nei visceri del cavallo.
«Ah,
padre, salviamolo, questo povero soldato
che
muore nella Polonia da tutti abbandonato.»
«Chi
siete, bel soldato, venuto così da lontano?»
«Sono
Colussi Vincenzo, un giovinetto italiano:
e
voglio portarti via, appena mi sono guarito,
perché
nel petto con gli occhi mi hai ferito.»
«No,
no, che non vengo via, perché mi sposo questa Pasqua.
No,
no, che non vengo via, perché questa Pasqua sarò morta.»
La
Domenica degli ulivi tutti e due piangevano,
e
l’uno e l’altra piangere si vedevano di lontano.
Il
Lunedì santo si vedono di nascosto nell’orto,
e
si danno un bacio come due colombi.
Il
Giovedì santo, che nascono rose e fiori,
scappano
dalla Polonia per saziare l’amore.
La
Domenica di Pasqua, che tutto il mondo canta,
arrivano
innamorati nella terra di Francia.
Di Pasolini sono interessanti le canzoni in romanesco che fece per la Betti, oltre a quella con Modugno.
Associazioni di idee: Endrigo fece pure una canzone sull'emigrazione, Il treno che viene dal Sud (1967) in aperta polemica con Lauzi, La donna del sud (1966) e la sua visione pittoresca e porcellosa.
Associazione di idee 2: anche l'espressione "la meglio gioventù" viene da una canzone. Ve lo lascio come quiz
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
mambu ha scritto:Visto che ci sono metto le canzoni romanesche di Pasolini cantate da Laura betti
Valzer della toppa (musica di Piero Umiliani, che ricorderete come l'inventore del Crime jazz all'italiana de I soliti ignoti, parodia e affettuosa citazione del jazz da film neri, oltre che del mitico Mah na' mah na' )
Macrì Teresa detta Pazzia (qui la musica è di P. Piccioni, un altro ccènio della musica per cinema)
Cristo al Mandrione non nella versione della Betti e neanche in quella della Ferri, che non ho trovato, ma di Grazia De Marchi, una degna interprete del repertorio "popolare" (anche se è veronese e si sente)
Qui si potrebbe deviare a parlare del teatro canzone ma chiudo l'OT
Re: Cantautori & Cantastori (Puntate Precedenti)
ecco in questa page c'è il colleg anche per scaricarsi l'mp3 della canzone di Endrigo su Napo62...
Su Endrigo-Pasolini
Ferri-Toppa-Pasolini
cercavo un link-page riassuntivo, ma non ci fu vers :chedici:
Su Endrigo-Pasolini
Ferri-Toppa-Pasolini
cercavo un link-page riassuntivo, ma non ci fu vers :chedici:
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