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Messaggio Da ubik Lun 23 Giu - 20:16

BRIN, LA SOTTILE LINEA ROSA DEL GIORNALISMO
Simonetta Fiori per "La Repubblica"
 
«Io sono una storica del costume, non una cronista. I miei libri devono incuriosire, certo: ma resistere». Irene Brin l’aveva capito prima degli altri. E forse bisognerà riscriverla, la storia del giornalismo di costume, un genere tradizionalmente considerato frivolo forse perché femminile, in realtà capace di indagare lo Zeitgeist contemporaneo molto più di tanto giornalismo sapientone.
 
È il caso di questo bellissimo saggio “storico” che esce a sorpresa dagli archivi della Galleria d’arte contemporanea. Il diario di un anno considerato dalla Brin come periodo di svolta della vicenda italiana: il 1952, data della rinascita internazionale di un paese affamato, ferito dalla guerra e immiserito dall’autarchia culturale del passato ventennio. Quando sul finire del 1967 l’editore Immordino le chiede di scegliere il “suo” anno per la collana diretta da Milena Milani ( Un anno di...) — la stessa in cui era uscito Le Pervestite di Camilla Cederna — la scrittrice indica la «festa intelligente e stracciona » che aveva visto l’Italia “esplodere” fuori dai suoi confini.
 
L’Italia esplode. Diario dell’anno 1-952 è il titolo di questo testo rimasto finora inedito e che ora vede la luce grazie a Viella e per la cura di Claudia Palma nella collana “La memoria restituita” diretta da Marina Caffiero e Manola Ida Venzo (pagg. 240, euro 22, in libreria il 9 luglio). Una cronistoria divisa in dodici capitoli — uno per ogni mese dell’anno — che restituisce la seduzione intellettuale e creativa di una Roma ridivenuta caput mundi, come ai tempi di Goethe e Stendhal. Artisti e viscontesse, fotografi à la page e incantevoli modelle in cerca di principe o inutilmente innamorate di Luchino Visconti.
 
Ecco l’incontentabile Cartier-Bresson e il riservato Jean Genet, un’insolita Ingrid Bergman e il maestro di stravaganze Salvador Dalí, Igor Stravinsky e Graham Greene, Nancy Mitford e Tennessee Williams. È l’anno del made in Italy, lanciato nel mondo dal Grand Hotel di Firenze. L’arte di Visconti e De Sica richiama nella capitale le star internazionali. I “sacchi” di Burri incantano e scandalizzano. E al centro della scena c’è lei, maestra di generazioni di giornaliste, affascinante, cosmopolita, elegantissima.
 
La zarina di Harper’s Bazaar, Diana Vreeland, l’aveva scelta come Rome editor dopo averla ammirata a New York con un tailleur griffato Fabiani. Le scarpe sempre aperte sul davanti, a mostrare l’alluce esemplarmente smaltato. Colta e curiosa, scrittrice raffinata e traduttrice di quattro lingue, fondatrice insieme al marito della prima importante galleria d’arte nel dopoguerra. Sapeva intessere reportage di moda con citazioni dell’eresia catara o di Rasputin, inventrice di un genere letterario che avrebbe annoverato diversi emuli, non solo tra le donne (domani, a Sasso di Bordighera, le sarà dedicato un Museo, che raccoglie opere, abiti e fotografie).
 
L’Italia esplode fu il suo ultimo libro, scritto nel 1968, a malattia già avanzata. Un’altra rivoluzione stava per esplodere, ma Irene Brin non fece a tempo ad assistervi. La sua vita s’era mescolata con quella del 1952, diventando improvvisamente “calda” e “umana”. «Valeva la pena di viverla», sono le sue ultime parole. E non si fa fatica a crederle.
 
2. QUELLA FOLLE SERATA ROMANA IN CUI DALÍ CHIESE A DE CHIRICO: “HAI PIÙ MILIONI DI ME?”
Estratto del libro di Irene Brin “L'Italia esplode. Diario dell'anno 1952” (Viella editore)
 
Cominciai prestissimo, a Genova, dove mio padre faceva parte di una società marittima. Scrissi un pezzettino, lo spedii al capo-ufficio pubblicità che in quel giorno festeggiava la nascita del dodicesimo maschio. Sarà di buon umore, pensavo, e lui magari si strappava i capelli. Però l’articolo non lo strappò. Allora non si diceva un “pezzo di costume”, come si dice ora, ma “un cane schiacciato”. Nessun redattore vero voleva occuparsi di cani schiacciati, metaforicamente o no (tranne questa ragazzina miope, con le gambe lunghe, una curiosità inesauribile).
 
LE BRINATE
Il Bertoldo nel suo editoriale adottò la formula “Irenebrinentrano”, “Irenebrindano”, “Irenebrinescono”. Longanesi ed io ne fummo profondamente lusingati (Irene Brin era uno pseudonimo inventato da Longanesi ndr). E citerò, vanitosamente, la sola tra le mie emule che brinuscì quasi subito. Era Elsa Morante.
 
IL CENTRO DEL MONDO
Nell’autunno del 1951 ebbi un collasso, a Chartres. Mio marito mi ricondusse a Roma e rimasi a letto lunghe settimane. Per divertirmi, mi posava sulle lenzuola le varie lettere in arrivo: volevo organizzare un Festival di Moda? Una mostra di pittura moderna, a Bâton Rouge? Intervistare Graham Greene o Aldous Huxley, che progettavano un libro su Roma? Così, lentamente, attraverso la doppia nebbia delle mie delusioni e della mia solitudine, capii che Roma era diventata il centro del mondo. E valeva la pena di partecipare a quella esplosione.
 
Marie-Louise Bousquet, capo della redazione parigina di Harper’s Bazaar, aveva cominciato a inviarmi quei telegrammi lunghi, romantici, opulenti. «Irène, mon amour, tu verras bientôt arriver Henri Cartier-Bresson, mon autre amour...». Marie-Louise è sempre stata una donna che parlò, scrisse, sognò e rise quasi unicamente d’amore: mi auguro lo abbia anche fatto, con altrettanta felicità e frequenza.
 
Sviluppò comunque al massimo il fascino di una gamba difettosa, acquistandone un modo di camminare particolare a lei sola, un saltellío con soste, un’ hésitation con giravolta, un cakewalk con aggiunta di zapateado. Mi dicono fosse ottima nel charleston. (...)Feci del mio meglio per accontentare Marie-Louise trovando un petit amour de petit Noël italien.
 
(...) Mi parve una giusta soluzione chiedere a donna Margherita Caetani il permesso di introdurre grossi cavi elettrici nella sua tenuta di Ninfa, per fotografare le sue sette chiese semi-distrutte. La principessa rispose di sì, Cartier di no: troppo dannunziano. Trovai un Monsignore che ci avrebbe consentito di ritrarre la Messa in un convento di clausura, attraverso le grate.
 
Cartier giudicò l’idea barocca, seicentesca. (...) Inseguendo l’immagine di un paese che forse aveva cessato di esistere, Eli ed Henri trascorsero il dicembre del 1951 tra Scanno e Matera. «Anche se mia moglie soffre molto il freddo, siamo felici, la gente ci offre ospitalità con meravigliosa gentilezza che bisogna far risalire ad epoche arcaiche... ».
 
JEAN GENET INNAMORATO
La visita di Jean Genet, a Roma, avrebbe dovuto essere misteriosa. O, almeno, così sperava l’amico che lo ospitava in casa propria. Ma no, il vecchio forzato, che accentuava per timidezza il passo pesante e il cranio nudo, fu adottato da Roma con entusiasmo, lo riconobbero tutti e lo lasciarono tranquillo, con poche eccezioni. (...) «Madame » mi dichiarò quando gli trasmisi l’invito della duchessa, «je regrette, no. Non amo ricordare il passato. E in questi giorni non posso assolutamente perdere un solo minuto. Sono innamorato quanto il Giovane Werther. Come Goethe, scopro la grandezza
di Roma e la gioia di vivere».
 
POVERA INGRID
I miei rapporti con Ingrid Bergman cominciarono male. Aveva accettato dopo qualche difficoltà ad accogliermi con un fotografo di sua fiducia, tuttavia ebbi una risposta gelida dalla mia direttrice (...). Mi diede un’impressione di una estrema incertezza, anche se fisicamente si era maturata, ingrassando e probabilmente piangendo.
 
«Studio l’italiano, credo che presto lo parlerò bene. Ma studio anche gli italiani e temo che li capirò sempre male. Ognuno di voi dà l’impressione di un’assoluta esperienza. Non solo gli adulti, non solo gli intellettuali. Tutti. La mia cuoca. I bambini. Gli sconosciuti. Avete l’aria di vivere da mille anni. Io non ho vissuto affatto».
 
IL DUBBIO DI DALÍ
Andammo per pranzo al ristorante “Passetto” e Salvador sfoggiò le infinite risorse della sua cultura e del suo spirito. Aveva completamente dimenticato il suo bastoncino («Lo porto sempre, a Roma, e faccio finta di zoppicare, ai Romani piacciono gli zoppi») e anche i suoi baffi non davano fastidio. Di fronte a lui Gala era serena, con quella nobile faccia larga, magra, senz’ombre.
 
«Credete», chiese Dalì posando improvvisamente il cucchiaio, «che Giorgio de Chirico abbia più milioni, o meno, di me?». Grave, insolubile dubbio. Decise di risolverlo telefonando subito a de Chirico e lo accompagnai al telefono. «Allô? Sono Salvador Dalì. Posso parlare col maestro?». Dall’altra estremità del filo rispose, inconfondibile e baritonale, la voce del maestro: «Oh, non, je suis à la campagne».

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Messaggio Da ubik Gio 26 Giu - 23:25

La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 2qwejvo  La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 732609  La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 732609  La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 732609 che paura... però mi è piaciuto un sacco  La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 561231
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Messaggio Da ubik Gio 26 Giu - 23:31

La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 41ZA7I2GjlL._SY445_ bellissimo, lo consiglio caldamente, non è un romanzo, non è un saggio, ma è veramente interessante e, direi, avvincente  La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 79629 

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Messaggio Da anna Gio 24 Lug - 12:15

MUOIONO SOLO GLI STRONZI! - MONICELLI STORY: “C’È MARIO?”. “CHI PARLA?”. “LA FIDANZATA” “E IO SONO LA MOGLIE, QUI CI SONO SEDICI CAMICIE DA STIRARE. SE VUOLE VENIRE SI FA A METÀ!” -
La biografia del grande regista è una giostra che attraversa quasi un secolo, dal 1915 al 2010, e ribalta tutti gli stereotipi sugli italiani. A partire dalla famiglia. Imparentato coi Mondadori, figlio del giornalista Tomaso che sparse figli per il mondo. Geniale, burbero, controcorrente, amante della vita fino a quando «non smette di essere vera e dignitosa»...


Giorgio Boatti per “La Stampa”


C’è stato un tempo in cui si è dibattuto, e molto, sull’esistenza o meno del «carattere degli italiani». Mario Monicelli - il padre della commedia all’italiana, settant’anni di cinema e novantacinque anni di vita - sembra aver vissuto proprio per confermare ai dubbiosi che il «carattere degli italiani» esiste.

Infatti, con la sua vita e le sue opere, lo tratteggia con puntigliosa nettezza, di dritto e di rovescio. Per questo, con un personaggio così, bisogna fare i conti. L’occasione ora è data dall’uscita presso Bradipolibri della biografia “Muoiono solo gli stronzi. La straordinaria vita di Mario Monicelli” (pp. 144, € 15) che Roberto Bosio dedica all’artefice di oltre centocinquanta film, successi che hanno attraversato le generazioni, come “I soliti ignoti” e “La grande guerra”, “I compagni” e “L’armata Brancaleone”, “Amici miei”, “Il marchese del Grillo” e altri ancora.

“Muoiono solo gli stronzi” è una rigorosa giostra che gira da subito velocissima: perché attraversare un secolo e oltre, dal 1915 al 2010, come ha fatto Monicelli, impone un passo vertiginoso. Tanto per cominciare, tracollano gli stereotipi di cartapesta su cui parrebbe reggersi la società italiana: a iniziare da quel «tengo famiglia» declinato da Monicelli - nei film e nella vita - con nuove regole d’ingaggio.

Così, in “Amici miei”, il Sassaroli, proprietario della clinica in collina, spiega al sognante architetto Rambaldo Melandri che la famiglia «è una catena di affetti» e che, se proprio vuole prendersi sua moglie, deve prendersi anche, oltre alla signora, «tutto il blocco»: bambine, governante tedesca e il cagnone Birillo compresi.

Sull’altro versante - nella vita vera di Monicelli - le cose corrono con simmetrico procedere. Il regista, che si sposerà due volte e a 61 anni si legherà con una ragazza che ne ha quaranta meno di lui, diventando padre per l’ultima volta a 73 anni, anche nel corso del secondo matrimonio ha diverse relazioni sentimentali. Così, in casa, si sentono telefonate come questa: «C’è Mario?». «Chi parla?». «La fidanzata» «E io sono la moglie, qui ci sono sedici camicie da stirare. Se vuole venire si fa a metà!».


Del resto anche nella sua famiglia d’origine si rispondeva come si poteva ai colpi di scena della vita e degli affetti. Tomaso, il padre del regista, è giornalista, originario di Ostiglia, il paese del Mantovano da cui proviene anche Arnoldo Mondadori. Anzi, i due all’inizio sono soci: fondano La Sociale, casa editrice da cui scaturirà successivamente l’Arnoldo Mondadori editore.

Poi diventano cognati, poiché Andreina, la sorella di Tomaso, sposerà Arnoldo. Casa Mondadori sarà sempre accogliente verso i sei figli (due, Giorgio e Silvana, nati fuori del matrimonio) sparsi da Tomaso per il mondo. I rapporti tra i fratelli sono scarsissimi: tanto che a una prima il regista, ormai celebre, viene festeggiato con insolito affetto da un uomo che non conosce. Stupito gli chiede chi è, e questo: «Ma come? Sono Furio, tuo fratello!».

In compenso il cugino Alberto Mondadori sarà al suo fianco quando, prima di approdare a Roma, pubblica la rivista “Camminare” (con redazione nello scantinato milanese di casa Mondadori) e poi realizza il suo primo lungometraggio “I ragazzi della via Pal”, presentato nel 1935 a Venezia, nella sezione «Giovani».

Geniale, burbero («era il re dell’understatement, che io chiamo pudore» diceva di lui Suso Cecchi d’Amico), ama fare cinema «perché non è stare soli, davanti a un foglio», ma scaraventa senza remore divi e divine capricciosi. In compenso pilota istrioni come Gassman e Sordi e non perde la rotta quando Totò e Fabrizi - amici ma competitivi - davanti alla cinepresa di Guardie e ladri giocano a improvvisare, per vedere se l’altro sa stare al passo.

Monicelli ama procedere controcorrente: a 85 anni, quando gli altri anziani vengono accolti in comunità, decide di andare a vivere da solo. Dirige l’ultimo film a novant’anni, collaborando con registi giovanissimi. Sa andare, in ogni cosa, fino in fondo, e coglie così l’oscenità del potere, la brutalità della guerra, la tragedia che sta accanto alla commedia. Da quando suo padre si è ucciso sa che l’ombra della morte cammina accanto a ogni vita, ai sorrisi e alle lacrime di ogni giornata. Per questo, dice, la vita va vissuta sino in fondo: fino a quando «non smette di essere vera e dignitosa».

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Messaggio Da ubik Lun 15 Set - 20:55

La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 Sebastiano-vassalli-589200

Chi era suo padre?
«Un nullafacente. Dedito, durante la guerra, alla borsa nera e poi non so. Fascista. Fino in fondo. Sempre dalla parte sbagliata. Il Merda».
 
Come dice?
«È il nome che gli do. Non ne merita altri. Non ne ricordo altri».
 
E sua madre?
«Altro campione di umanità».
 
La grandezza di Sebastiano Vassalli — ammesso che si possa parlare di grandezza — ha inizio dalla sua ombrosità. È un uomo cupo. Come se un’infelicità di fondo abbia prodotto una relazione con il mondo fatta di sospetto malmostoso e pessimismo. Più che solo, è un uomo solitario. Vive a Novara: appartato. Raramente esce dal suo guscio. E se lo fa è nella strenua convinzione che, dopotutto, non ne valesse la pena. Perché muoversi?
 
Dunque. La sua faccia di compassato roditore (somiglia a un castoro) svetta nell’oscurità dei suoi pensieri che elabora con paradossale vigore. Come da fermo. Come se una diga, che egli stesso ha costruito, impedisca, alle acque della mente, di travolgere tutto.
Non sarà un caso che tra gli amori giovanili di Vassalli ci sia Dino Campana (il libretto uscì qualche tempo fa per Interlinea, una casa editrice che pubblica le sue cose più personali).
 
E insolito può apparire lo scrittore che si paga il biglietto di andata e ritorno verso l’inferno. Ma sospetto che egli ci si trovi a suo agio. Cosa sono la mente e il corpo? Trascurabili inezie se non ci fosse la scrittura. E questa, sostiene Vassalli, lo fa volare. Oltre le angosce, oltre le ostilità. Uomo paradossale. Vassalli. Mi affascina. Mi ipnotizza. Mi repelle.
 
Cos’è l’odio?
«Quale odio?»
 
Faccia lei: letterario, umano.
«Bisogna che maturi, come il grano, per poterne parlare ».
 
Lei odia, ha odiato?
«Ho odiato volentieri. Sono costituzionalmente incline all’odio. È una raffinazione di sentimenti più basici: gelosia, invidia, paura».
 
Dove è nato tutto questo?
«Sono stato un ragazzo della guerra. Il corteo di nefandezze e violenze il brodo di coltura».
 
Genitori?
«Ah! Cancellati».
 
Cancellati?
«Non ci sono più. Non ci sono mai stati».
 
Nel senso?
«Sono il frutto di una gravidanza non voluta. Credo abbia fatto di tutto per espellermi. E io aggrappato alle viscere ho resistito. Odiava che nascessi. Sono nato. A dispetto di tutto».
 
In un certo senso orfano.
«Dopo la loro separazione mi abbandonarono ad alcuni parenti. Sono nato a Genova. Ho vissuto l’infanzia a Crevetto, oggi luogo considerato assai á la page. Ieri un piccolo inferno. E poi sbattuto a Novara da certi prozii».
 
E i suoi?
«Dispersi. Il Merda si sarà rifatto una vita. Non lo so. Idem mia madre. Che posso aggiungere? Genitori così meglio non averli».
 
Li ha più rivisti?
«Mai più».
 
Non ha curiosità verso la loro vita?
«Nessuna. È stata una coppia male assortita. Si lasciarono insultandosi ferocemente».
 
E lei in mezzo.
«Ero il problema, non la soluzione».
 
Chi l’ha allevata?
«Dei parenti. In cambio di qualche chilo di farina e un po’ d’olio fui cresciuto. Diventai un novarese. Crescendo dissi loro: non vi preoccupate, in me non dovete vedere un adottato, ma un piccolo fondo pensione».
 
Novara è stata tutta la sua vita.
«Beh sì. Le scuole, il liceo e poi via per un po’ a Milano dove feci l’università».
 
Cosa ha studiato?
«Facoltà di lettere. Laurea con Cesare Musatti, con una tesi tra arte e psicoanalisi. Ricordo il giorno della discussione ».
 
Che accadde?
«Il controrelatore, Gillo Dorfles, voleva bocciarmi. La scena era surreale. Il grecista Raffaele Cantarella si era addormentato. Un altro professore aveva poggiato la sua dentiera sul tavolo. Musatti taceva e Dorfles infieriva».
 
Strano, in fondo Dorfles aveva avuto un trascorso come studioso di medicina e psichiatria.
«Era triestino, come Musatti. Sembrava un volpino assatanato. Ce l’aveva con me. Alla fine Musatti parlò. Disse: sono contrario alla bocciatura, però visto che insisti abbassiamogli il voto».
 
E lei come reagì?
«Non me ne fregava niente. All’università c’ero andato per rimorchiare. Presi a insegnare guadagnando un po’ di soldi e nel tempo che restava dipingevo».
 
Non scriveva?
«Non pensavo di fare lo scrittore. Entrai nel giro del Gruppo 63 da pittore. Edoardo Sanguineti presentò, ricordo, dei miei lavori. Feci qualche mostra nelle gallerie milanesi e perfino a Venezia, al Cavallino, dove Peggy Guggenheim comprò una mia piccola opera».
 
Che genere di pittura faceva?
«Oggi potrei dire che facevo della Pop Art senza la benché minima consapevolezza. Quando nel 1964 la Pop Art giunse alla Biennale di Venezia, capii che le mie cose non avevano respiro».
 
Cioè?
«La mia era la visione di un provinciale. Mi sentii improvvisamente inadeguato».
 
C’era pur sempre il Gruppo 63.
«Era composto da gente che si dava un gran daffare. Giovani rampanti collocati nelle università e nelle case editrici. Diciamo che non erano dei campioni di modestia. E poi lasciamo perdere che non abbiamo prodotto grandi opere, ma non hanno prodotto nemmeno grandi teorie degne del nome. L’unica cosa di un certo rilievo di quegli anni, con qualche respiro teorico, fu Opera aperta di Umberto Eco».
 
Per il resto?
«Niente. Con la sensazione dopo un po’ di essere stati presi in giro».
 
Chiamerebbe anche questo una forma di odio?
«Non lo so. Di solito ci si sente immuni da questo sentimento e attribuiamo l’odio agli altri. Mi viene in mente una persona che conobbi bene negli anni Settanta e che quando ero a Roma andavo spesso a trovare: Rodolfo Wilcock».
 
Lo scrittore argentino?
«Lui, che aveva scelto l’Italia. Una volta mi recai a casa sua. Viveva all’estremo della periferia. Con due cani. Uno vecchio e l’altro grassissimo. Presi le pulci e non fu cosa facile debellarle. Che le stavo dicendo?».
 
«Parlando una volta di sentimenti umani mi disse: l’amore e l’amicizia vanno e vengono; il solo sentimento durevole è l’odio. Poi rimase un momento a pensare e aggiunse: se qualcuno ti odia non sei mai solo. Una frase memorabile. Mi fece intravedere una positività dell’odio alla quale non avevo pensato».
 
Ma Wilcock chi odiava?
«Moravia e le persone che gli stavano intorno. Odiava il potere letterario romano».
 
Lei di Moravia che pensa?
«Nella cultura italiana ci sono state due cose insopportabili: prima della guerra gli ermetici e dopo la guerra Moravia. A parte Gli indifferenti non c’è una sua opera che mi abbia convinto. Ricordo di averlo visto una sola volta. A Milano. Nel 1959. Ero matricola. L’università aveva organizzato degli incontri con grandi scrittori. Vidi arrivare quest’uomo claudicante. Prese la parola e ho nitida l’impressione della noia che provai al discorso che fece e che ho dimenticato. Completamente diverso fu l’incontro successivo ».
 
Con chi?
«Ezra Pound. Quando arrivò c’erano, fuori della Statale, file di poliziotti. La gente inveiva per i suoi trascorsi fascisti. Gli americani lo avevano rinchiuso in manicomio. Non avevo pregiudizi. Chi lo presentò disse alcune cose di lui. Poi, rivolgendosi alla platea di studenti, chiese se qualcuno aveva delle domande da rivolgergli. Ce ne furono tre o quattro. Pound restò impassibile. Sembrava che niente lo interessasse. Tacque. Poi si alzò un ragazzo e gli chiese di leggere il Cantos dell’usura. E fu impressionante».
 
Lo lesse in italiano?
«No, in inglese. Nessuno mi aveva mai trasmesso un’emozione così potente».
 
Cos’è l’emozione in poesia e in letteratura?
«L’unico estremismo che mi è rimasto è quello della poesia. Tutto il resto mi pare una minestra tiepida. La poesia no. La poesia o dà un’emozione oppure non esiste».
 
C’è una definizione che la soddisfa?
«La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole. Vita che non appartiene più a un corpo né a un tempo o a un’epoca. Non è più legata a nulla. O dà questa emozione oppure è un giocare con le parole che tutti possono scrivere».
 
E il romanzo?
«Non è tenuto a comunicare grandi emozioni. Deve coinvolgere, deve entrare dentro, far pensare a certe cose e farne rivivere altre. Punto».
 
Lei passa per un raccontatore di storie. Molte delle quali nascono dal passato, come si ricava anche dal suo ultimo romanzo, Terre selvagge.
«Le grandi storie sono nel passato, o nel futuro. Il presente è la vita del condominio. C’è qualche spunto che diventerà importante, ma noi non possiamo coglierlo o, nel momento in cui si manifesta, non ha bisogno dello scrittore. Ne parleranno la televisione, i giornali, Internet».
 
Ha mai avvertito un senso di frustrazione rispetto al suo lavoro?
«La sensazione di inadeguatezza c’è. Chi vuole fare lo scrittore deve passare attraverso questa esperienza. Nell’attuale orgia del pubblicare l’inadeguatezza è sparita».
 
Con chi si è trovato meglio, nel pubblicare intendo?
«Direi con nessuno. Non è esatto. Un editore importante fu per me Giulio Einaudi».
 
Come fu il rapporto?
«Mi ignorò fino alla pubblicazione de La notte della cometa . Per 16 anni non mi rivolse la parola. Le poche volte che lo incrociavo ci presentavano e in un’occasione rivolgendosi a un ospite disse: ecco il nostro traduttore. Non avevo mai tradotto nulla».
 
Era un autore Einaudi.
«Sì, sì. Fu Italo Calvino a scoprirmi agli inizi degli anni Settanta con Tempo di massacro. Si innamorò di quel lavoro. Mi scrisse da Parigi. Entusiasta. Ma non ci fu mai un feeling tra noi».
 
Eravate entrambi troppo chiusi?
«Calvino aveva bisogno di una persona diversa da me. Che infatti trovò poco dopo in Daniele Del Giudice. Con me non funzionò».
 
Fu un’occasione mancata?
«Ma no. È la vita. Ero così».
 
Così come?
«Scorbutico. E Calvino era un uomo non troppo gradevole. E poi, le dico la verità: dopo La giornata di uno scrutatore , non mi interessava più. Il grande scrittore che aveva iniziato con I sentieri dei nidi di ragno si era dissolto. Ovviamente parlo dei miei umori».
 
Mentre con Einaudi fu diverso?
«Ci fu innamoramento. Non era più l’editore. Dopo le batoste e il commissariamento era solo un consulente. Quando arrivò la prima volta a Novara mi toccò pagargli anche il pranzo. Non aveva smesso i modi del gran signore che gira senza portafoglio! Poi litigammo di brutto e lui me la giurò».
 
Litigaste perché?
«Cacciò Alessandro Dalai e io dissi che quella congiura aveva portato la casa editrice, fino ad allora indipendente, nelle braccia della Mondadori. Venni “fucilato”. Quando l’anno successivo uscì il mio nuovo libro, Einaudi dichiarò che era meglio non leggerlo. Era come Saturno: divorava i suoi figli. E sono convinto che fu lui il responsabile del suicidio di Pavese».
 
Con quali prove, mi scusi?
«Nessuna prova. Ma so che tre giorni prima della morte litigarono. Con Einaudi ci riappacificammo. Mi telefonò il capodanno del 1999. La mia prima moglie era in ospedale. Sarebbe morta di cancro. La mattina avevo 39 di febbre. Suonò il telefono e sentii quella vocetta nasale inconfondibile. Erano due anni che non ci parlavamo. Ti dispiace che ti ho telefonato? Domandò. Non sapevo se ridere o piangere. Morì ad aprile. Ecco, posso dire che con lui ho avuto un rapporto vero che non ebbi né con Calvino né con altri».
 
E sua moglie?
«Morì nel maggio del 2000. Dopo 32 anni di matrimonio. I primi venti, tutto sommato, felici. Poi una catastrofe progressiva. La depressione, gli squilibri mentali, resero tutto più difficile. Si invaghì perfino di una vicina di casa. Presa dai sensi di colpa, rovesciò la situazione, accusandomi di tradirla. Un inferno. Solo dopo che scoprì di essere ammalata di tumore le cose si attenuarono. Ci parlammo normalmente. Giunse l’agonia. Durò tre giorni. Durante i quali invocò la sola persona cui aveva voluto bene».
 
Chi?
«Non ero io. Né la vicina, né sua madre. Invocò suo padre ».
 
È sempre così drammatico?
«La vita lo è. E la mia poteva anche andare peggio. Potevo uccidere o finire in manicomio. Per questo ho spesso cercato di vivere oltre le mie storie personali. Cercare altre storie. Altre epoche. Mi sono reso conto che pezzo a pezzo i miei romanzi hanno raccontato l’Italia».
 
E che idea si è fatta di questo paese?
«È un paese al quale non riesco a voler male. Dove è difficile vivere e fare lo scrittore. Ma qui non si resterà mai a corto di storie ».

dagospia

Sebastiano Vassalli era uno dei professori di lettere del Liceo Artistico di Novara, quando l'ho frequentato io La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 785530 moooolti secoli fa La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 785530
per fortuna io ne ho avuti altri, ma sono riuscito a trovarmi anche lui come prof nel così detto "quinto anno integrativo", un corso con frequenza pomeridiana obbligatoria di un anno, dopo la maturità, per potere accedere all'università; Vassalli non era scorbutico, era scrobuticissimo La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 30341 La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 30341 La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 30341 La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 30341 What a Face
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Messaggio Da ubik Mar 4 Nov - 22:52

Nonostante Carrie e Shining mi siano piaciuti parecchio, ho sempre mostrato un atteggiamento di sufficienza, quasi spocchioso, nei confronti di Stephen King, un po' perché non sopporto molto l'horror, un po' perché sono portato a considerarlo uno scrittore di cassetta e basta.

Ma qualche giorno fa ho deciso di comperare La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 Z  Suspect

1.100 e passa pagine La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 378480

ebbene, è diventato come una droga, ho bisogno di sapere come prosegue e lo leggo in ogni momento libero La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 30341  What a Face
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Messaggio Da ubik Mar 16 Dic - 23:54

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Messaggio Da ubik Ven 5 Feb - 23:44

La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 9k=  La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 561231

sto finendo questo e ancora una volta mi rendo conto che i romanzi di King non sono "solo" romanzi horror

"It" per esempio si potrebbe definire "romanzo di formazione", se non fosse che faccio fatica a immaginare un bambino che lo legga, sia perché comunque fa paura, sia perché si tratta di più di 1.300 pagine La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 378480

in ogni caso, mi piace La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 79629
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Messaggio Da ubik Gio 3 Mar - 22:36

La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 ?tit=Tito+di+Gormenghast&aut=Mervyn+Peake  La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 561231

una autentica scoperta La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 79629

scritto e tradotto benissimo, una favola di cui non conoscevo l'esistenza che si aggiunge nello scaffale ad Alice nel paese delle meraviglie, al Mago di Oz, a Peter Pan, a Pinocchio, ....

insomma, un mondo, i personaggi, il loro abbigliamento, i loro dialoghi, le stanze del castello che abitano, un nuovo immaginario su cui fantasticare La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 731826434

scommetto che è stata una lettura giovanile di Tim Burton Suspect
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Messaggio Da Bellaprincipessa Ven 4 Mar - 9:54

questo mi ispira!
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Messaggio Da ubik Ven 4 Mar - 19:16

Bellaprincipessa ha scritto:questo mi ispira!



gli inglesi l'hanno ovviamente ridotto per la televisione La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 79629

non sembra male, ma il romanzo (come accade spesso) è molto più suggestivo La biblioteca di DarkOver - Pagina 12 731826434
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