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Uomini e donne ai margini. Storie di poco conto.

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Messaggio Da anna Ven 12 Ago - 19:52

Vedi Genova e poi muori

"Genova. Una sera mia moglie si sente molto male. La carico in macchina e corro verso l'ospedale San Martino. Mi dicono di metterla in corridoio. E' pieno di extracomunitari feriti in forse in qualche rissa, trans, balordi, prostitute. Mia moglie sta sempre più male. Non so cosa fare. E' la prima volta che mi succede. Chiedo aiuto a un infermiere che mi dice di stare tranquillo. "Cerchi di non preoccuparsi." Tranquillo? Ma se non è stata neppure visitata. Cerco con gli occhi un medico, non trovo nessuno. Ho paura a lasciare sola mia moglie per andare a cercarlo. Passa un altro infermiere. Mi dice di lasciare mia moglie vestita. Non toglierle assolutamente le scarpe. "Se no gliele rubano...". Ma dove cazzo mi trovo? Sono in un ospedale pubblico pagato con le mie tasse o in un suk frequentato da ladri e zoccole? L'infermiere dopo un po' ritorna con un lucchetto e una catena. "Sono per la borsa di sua moglie", spiega, "La assicuri al letto, altrimenti dopo un po' non la trova più". Mia moglie, che aveva sentito tutto, mi ha guardato allora come un cerbiatto ferito. L'ho presa in braccio e sono scappato. Con il primo taxi sono andato in un ospedale privato. Non ho molti soldi, anche perché vanno tutti in tasse per questi porci. Ho fatto dei debiti per l'operazione che era urgente. Ora mia moglie sta bene. L'Italia invece è ormai putrefatta. Negli Stati Uniti muori se non hai un'assicurazione privata, da noi non è differente, se non hai altri soldi da parte, se non ti fai una tua assicurazione, dopo aver pagato prima le tasse per la sanità pubblica, muori lo stesso. Però è più democratico." Alessio T.

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Messaggio Da anna Sab 20 Ago - 17:09

Tristemente donne


Ha fatto il giro rapido di tutti i social network, l’articolo del Telegraph che parla di un’indagine condotta fra le donne europee, dalla quale le italiane risulterebbero le più infelici. L’infelicità, sia chiaro, non è legata ad amori finiti o cuori spezzati ma a cose concrete come l’assenza di lavoro, la difficoltà a ricollocarsi se non più giovanissime, una condizione difficile peggiorata dal machismo dilagante e imperante.

Insomma, le italiane hanno molti motivi per non sprizzare allegria da tutti i pori e sembra quasi ridondante riportare come le donne intervistate affermino che la presenza quasi ventennale di Silvio Berlusconi al timone del barcone Italia, abbia notevolmente peggiorato la situazione, rafforzando l’attitudine maschilista che prevale in ogni contesto.

Ora, mentre leggevo, immaginavo già il solito refrain di chi dice che sono tutte chiacchiere e che altrove si sta peggio e, la più orribile, “tutto il mondo è paese”. Come ho già detto altre volte, sono certa che la “negazione” dei fatti attraverso la (falsa) idea che sia uguale ovunque, non aiuti affatto il Paese a migliorare.

Eppure, chiunque, facendo mente locale, potrebbe facilmente (ahimè) ricordare un lungo elenco di donne che: non lavorano, hanno perso il lavoro, non riescono a trovare un nuovo lavoro, sono infelici nel loro matrimonio, tornando indietro non si risposerebbero. Ovviamente, ci sono altrettanti uomini per ciascuna di queste categorie ma il fatto che abbiano o no un fisico da modelle nel loro caso è molto meno rilevante per trovare lavoro; il fatto che loro siano giovani o meno giovani è leggermente meno condizionante per ricollocarsi; il fatto che loro, oltre che del loro lavoro, si occupino anche della casa e dei figli è assolutamente “ornamentale” in moltissimi casi. Sempre una ricerca condotta a livello europeo, infatti, rivela che il 70% degli uomini italiani non accetta di buon grado di partecipare ai lavori domestici e il 95% non ha mai (dico mai) svuotato una lavatrice dal bucato.

Quando ero piccola non “vedevo” tutto ciò. Mio padre, cresciuto in una famiglia “matriarcale” (il papà morto giovane e il fratello più grande sui monti a fare il partigiano) non è mai stato, per fortuna, un maschilista. Ma nemmeno lontanamente. Lui ha condiviso con mia madre tutto e quando lei è stata in ospedale per mesi, fra la vita e la morte, lui si è occupato di me, mio fratello, della casa, del cane e senza mai prendere giorni di ferie se non proprio indispensabili. Crescendo ho scoperto un mondo diverso. Dove, ancora oggi, nel 2011, qualcuno mi guarda (solo in Italia) con occhi ricolmi di pietà quando dico che non sono sposata e non ho figli. Come se fossi un fallimento. Ho persino smesso di provare a spiegare che io figli non ne ho voluti e che non è necessario essere sposati per averne. E, soprattutto, che si può essere felici senza.

Ho smesso e ho preparato le valigie. Ho amiche a Londra, a Bruxelles, in Spagna, in Francia. Nessuna è felice “al settimo cielo” ma nessuna tornerebbe in Italia o, perlomeno, nessuna ricorda se stessa più felice nel Belpaese.
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Messaggio Da Strawberry Fields Dom 21 Ago - 10:56

Quanto ha ragione ..................
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Messaggio Da anna Lun 22 Ago - 14:43

Uno dei poliziotti condannati per l’omicidio Aldrovandi querela la madre del ragazzo

Continuano i paradossi di una vicenda tragica e senza fine: questa volta uno degli agenti incriminati e condannati in appello prova a trascinare in aula la madre della vittima


La madre di Federico Aldrovandi è stata querelata per diffamazione e istigazione a delinquere. A denunciare Patrizia Moretti è Paolo Forlani, uno dei quattro agenti di polizia condannati in primo grado a Ferrara a tre anni e mezzo per omicidio colposo, sentenza confermata lo scorso giugno in appello.

Non è la prima querela che la madre coraggio riceve da quando ha aperto un blog per denunciare quanto avvenne a suo figlio il 25 settembre 2005. Già gli altri tre poliziotti coinvolti nella colluttazione che portò alla morte del ragazzo di 18 anni la accusarono di diffamazione l’anno passato (procedimento già archiviato). Anche la pm Mariaemanuela Guerra, il primo magistrato che si occupò del caso giudiziario, l’ha chiamata in causa per diffamazione insieme ad alcuni giornalisti (il processo si aprirà a marzo) e le chiede in sede civile un risarcimento milionario.

Le parole incriminate questa volta sono quelle pubblicate il 27 aprile sul blog, in un post dal titolo “Al bar”. In un bar la donna si trovò di fronte Forlani e trasalì. Nel suo diario telematico racconterà poi di aver incontrato “uno di quelli che hanno tolto la vita a Federico (la frase originaria, poi sostituita nel giro di qualche ora, era “uno degli assassini di mio figlio”, ndr), tranquillo e allegro con una ragazza”. La madre di Federico prosegue dicendo che “quando vedo uno di loro mi manca il fiato, come a mio figlio. Mi si ferma il cuore, come a lui. Non riesco più a respirare, non so reagire. Vorrei urlare, picchiare, uccidere, ma non ne sono capace. Posso solo andare via e piangere. Andare via per non mostrare le lacrime proprio a loro. Impuniti. Per ora”. Il procedimento a carico dei quattro poliziotti attende infatti ancora la sentenza definitiva di condanna o di assoluzione.

Quelle frasi ora finiranno al vaglio del giudice per le indagini preliminari, dopo che la procura di Ferrara ha già chiesto l’archiviazione e dopo che l’avvocato del poliziotto si è opposto chiedendo l’imputazione coatta.

Per la pm Ombretta Volta la diffamazione non sussiste, dal momento che il termine “assassino” è sì “una espressione forte”, ma “è il nostro stesso codice che definisce la condotta con il termine di omicidio”, “un sinonimo di assassino”. Per quanto riguarda l’istigazione, invece, l’accusa è infondata, perché “mancherebbe la volontà cosciente di commettere il fatto”. Si tratterebbe, secondo la pm, dello “sfogo di una madre che vive il dramma di chi non riesce a colmare il vuoto di un figlio”.

Tutto il contrario per l’avvocato Gabriele Bordoni, secondo il quale il termine “assassino” è idoneo a ledere la reputazione di Forlani (“si può parlare di ‘assassino’ solo se vi è stata una volontarietà nel commettere l’omicidio”), mentre la frase “vorrei urlare, picchiare, uccidere ma non ne sono capace” basterebbe da sola “ad incitare altri verso atti di violenza contro la persona offesa”.

Patrizia Moretti comparirà davanti al gip – cui spetterà di valutare il rinvio a giudizio o il non luogo a procedere – il prossimo 10 novembre. “Non temo le sue ostinate e ripetute azioni giudiziarie – commenta sul blog la madre -, ma non posso sopportare il fatto che possa qualificarsi come ‘appartenente alla Polizia di Stato’ nel perseguitarmi giudiziariamente dopo avermi tolto mio figlio. Questo è insopportabile”.

Intanto la notizia della querela rischia di guastare il clima in vista del 29 settembre, quando Ferrara si prepara ad accogliere la festa nazionale di san Michele Arcangelo, il patrono della polizia di stato.
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vergogna..
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Messaggio Da anna Mar 23 Ago - 12:45

Madri di 'ndrangheta. Dopo la ribellione, l'acido

Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola. Due nomi che forse ai più diranno molto poco. Due donne che hanno in comune storie di 'ndrangheta, la ribellione al sistema criminale e l'acido che le ha uccise. Una a Milano, l'altra a Reggio Calabria.

Tutte e due queste donne hanno visto da vicino cosa sia la 'ndrangheta, una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo. Ci hanno convissuto per anni, sposando affiliati, facendo figli, rimanendo in silenzio. Fino a che quel silenzio non è stato più sopportabile. E da quel punto sono partite le denunce e la collaborazione con la giustizia, fino a temere le ritorsioni da parte delle stesse famiglie con cui avevano convissuto per anni. La principale ragione per cui si sono ribellate era comune: i figli e il loro futuro. Il loro sogno è stato dare ai propri figli un futuro normale, staccarli dal clima mafioso. Per farlo hanno denunciato e sono morte.

Due storie comuni, da una terra comune, la Calabria, che avevano in comune perfino l'età: Maria Concetta Cacciola, 31 anni, Lea Garofalo, 35. L'età in cui si diventa madri.

Maria Concetta Cacciola è morta la mattina del 22 agosto, dopo aver ingerito, almeno secondo le prime ricostruzioni degli investigatori, dell'acido muriatico nel bagno dell'abitazione dei genitori a Rosarno. Un suicidio su cui nei prossimi giorni sarà necessario fare chiarezza.

La donna era figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Gregorio Bellocco, uno dei capi di spicco dell'omonima cosca di Rosarno, che insieme alla cosca dei Pesce, gestiscono i traffici mafiosa nel rosarnese. Lo scorso maggio, anche in seguito alla condanna a otto anni per associazione mafiosa inflitta al marito, Salvatore Figluizzi, Maria Concetta Cacciola avava iniziato la sua collaborazione con la giustizia italiana, intraprendendo il percorso di testimone di giustizia.

Come da programma la donna era stata poi trasferita in località protetta, dove era rimasta fino al 10 agosto per poi far ritorno a Rosarno per trovare i figli, nel frattempo a casa dei nonni, in attesa del perfezionamento delle pratiche per il ricongiungimento in località protetta con la madre.

La sua collaborazione, dopo una serie di dichiarazioni, si ferma drammaticamente in una caldissima giornata di agosto. Giornata in cui Maria Concetta Cacciola incontra la morte ingerendo dell'acido muriatico.

Quell'acido che nel novembre 2009 ha consumato anche la vita di Lea Garofalo, compagna di Carlo Cosco, boss di una delle cosche di 'ndrangheta del crotonese. Una storia travagliata, piena di difficoltà e maturata tra Reggio Calabria, Campobasso e Milano.

Lea è a conoscenza di tantissime dinamiche all'interno della famiglia e nel 2002 inizia la sua collaborazione con la giustizia. Da quel momento in poi Lea Garofalo dovrà guardarsi le spalle e crescere anche la figlia Denise, avuta con Carlo Cosco. Lo stesso Carlo Cosco che dal luglio scorso è processato a Milano come mandante per l'omicidio di Lea Garofalo, uccisa in un capannone della periferia milanese vicino Monza e poi sciolta nell'acido.

Scrivono gli inquirenti milanesi, cercando di individuare il movente dell'omicidio Garofalo "Le ragioni poste alla base dell’eliminazione della donna risiedono nel contenuto delle dichiarazioni fatte ai magistrati, mai confluite in alcun processo, con particolare riferimento all’omicidio di Antonio Comberiati, elemento di spicco della criminalità calabrese a Milano durante gli anni ’90, ucciso per mano ignota il 17 maggio 1995. Le dichiarazioni fatte all’epoca dalla Garofalo individuavano, infatti, nei responsabili dell’omicidio l’ex convivente della donna, Cosco Carlo, e il fratello di questi, Giuseppe, detto Smith"

Nel 2009 Lea Garofalo aveva scelto di uscire dal programma di protezione, e da quel momento in poi le pressioni di Cosco si sono fatte sempre maggiori, fino alla sparizione di Lea Garofalo, fatta risalire dagli inquirenti al novembre dello stesso 2009.

Due storie di donne, divorate dall'acido che diventa metafora del fardello che le organizzazioni criminali pongono sulla schiena degli affiliati e delle persone a loro vicine. Un fardello che spesso è alimentato dalla solitudine in cui i testimoni di giustizia spesso si trovano e con cui fare i conti è ogni giorno più difficile.

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Messaggio Da anna Ven 26 Ago - 14:42

Giovan(n)i senza futuro

“Ciao, io sono Giovanni e ho tle anni. E tu?”. “Io due” , gli ha risposto mio figlio, mostrando con orgoglio tutte e cinque (!) le dita della sua mano destra. Poi hanno giocato insieme nel bellissimo mare della Costa Smeralda, con il pallone che avevamo appena comprato.

Anche Giovanni aveva un bel pallone, ma non poteva toccarlo. Gli è permesso solo vederlo.

Giovanni non è un bambino come tutti gli altri. Gira circondato da una montagna di giocattoli, dedica solo pochissimi minuti ai suoi piccoli amici e sparisce subito, veloce come è arrivato. Insieme alla sua giovane mamma. Per l’esattezza Giovanni gioca solo 3 minuti, ogni volta.

Giovanni segue la sua mamma, una giovane immigrata cinese, ancora clandestina, che vende giocattoli in spiaggia. La mamma lo porta con sé per fargli fare un po’ di mare, regalandogli un’apparenza di normalità, e anche perché non sa a chi lasciarlo. Giovanni è contento e se ne è fatto una ragione: anche se lui il mare lo vede camminando dietro la mamma carica di balocchi con i quali lui non può giocare è sempre più fortunato dei molti altri bambini cinesi, coreani, vietnamiti, indonesiani, indiani che hanno dovuto costruirli, quei giocattoli.

Ogni mezz’ora la mamma gli regala tre minuti di libertà: le sue vacanze. E Giovanni è socievole. Fa subito amicizia e si diverte a giocare.

Giovanni parla già meglio di tanti suoi coetanei, ma probabilmente non potrà studiare. Non potrà andare a scuola. Non potrà avere la vita normale dei suoi amichetti di spiaggia. Avrà una vita senza diritti. Sarà difficile spiegargli perché, ma è così. La mamma è clandestina e se iscrive il figlio a scuola rischia l’espulsione. Lo stesso rischio corre se deve andare in ospedale.

Peggio per lei. “Non è affar nostro”. “La legge mica l’abbiamo fatta noi”. E poi noi la mamma la vogliamo, in fondo in fondo, in Italia: quando dimentichiamo a casa la paletta e il secchiello ci evita il fastidio di sentire le strilla del nostro bambino che piange, rovinandoci la chiacchierata in spiaggia con gli amici.

Più che accettarla, direi che la tolleriamo. E solo perché ci rende un servizio. Come tanti manovali che ci costruiscono le case e le strade rischiando la vita. Come gli operai immigrati che respirano gas tossici nelle imprese in cui noi italiani non vogliamo più lavorare. Come gli immigrati che ci colgono i pomodori a tre euro al giorno, per dodici ore consecutive, sotto il sole cocente. Come le badanti in nero e sottopagate che ci tengono la vecchia nonna nel sole di agosto.

“Devono solo ringraziarci”. “Al loro Paese non avrebbero di che mangiare”. E poco importa se non hanno diritti, nemmeno quelli fondamentali.

Del resto è sempre stato così, sin dai tempi dell’antica Roma.

È vero. Ma allora avevamo il coraggio di chiamavarli schiavi.

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Messaggio Da anna Gio 1 Set - 16:06

Lampedusa, la prigione dei bambinidi Fabrizio GattiHanno pochi anni, a volte perfino pochi mesi. Sono venuti dall'Africa sui barconi. Adesso sono rinchiusi a centinaia nel centro di detenzione dell'isola. Dove restano per settimane tra malattie, incidenti e un caldo infernale. L'inviato dell'Espresso è riuscito a entrare in questo carcere di cui nessuno vuole parlare


Non dorme nessuno stanotte. Il mondo dei grandi è in rivolta. La stanza rimbomba sotto una grandinata di colpi. Omar comunque non sa cosa siano una rivolta e la grandine. E' un neonato, ha due mesi. Nemmeno suo fratello Hamza, 3 anni, e sua sorella Maha, 7, capiscono da dove arrivi questo rumore spaventoso.

Infatti non grandina. Sull'isola di Lampedusa d'estate non succede mai. Sono i sassi che cadono contro le pareti e il tetto in lamiera. Lanciano pietre ovunque.

Una notte ordinaria nel centro di detenzione per immigrati e rifugiati. Omar, Hamza e Maha sono piccoli carcerati. Da settimane non possono uscire dal recinto di filo spinato e lamiere arroventati dal sole.

Sono sbarcati alle quattro e un quarto del mattino, sabato 6 agosto. A quell'ora Omar è apparso sul molo con i due fratellini. Lui era stretto nelle braccia del papà, scappato con la moglie dalla guerra. I genitori, emigrati dal Sudan in Libia anni fa per lavoro, li hanno protetti dagli spari, dalle bombe. E dalla fatica della traversata. E' sopravvissuto sano e forte, Omar. Uscirà invece di qui, quando uscirà, con una brutta ustione alla coscia destra. Una notte uno dei dipendenti assunti per l'emergenza, che la retorica si ostina a chiamare volontari, l'ha messo sotto l'acqua bollente. Voleva lavarlo. Si è sbagliato.

Cose che succedono nella prigione dei bambini. Tutto è precario. Tutto è pericoloso.

E' per questo che i bambini non andrebbero mai rinchiusi in un posto così. C'è anche la piccola Chideria. Nata in Libia il 6 maggio 2011, è l'unica sopravvissuta tra i bimbi del suo barcone approdato il 4 agosto. I piccoli compagni di viaggio sono morti uno dopo l'altro.

Chideria l'hanno liberata con i genitori nigeriani soltanto dopo tre settimane. Così piccola si è fatta 20 giorni di reclusione. Si è anche ammalata. Un certificato sanitario di Medici senza frontiere che riscontrava sintomi persistenti di bronchite, pus dagli occhi e punture da insetto multiple è rimasto inascoltato fino a mercoledì 24 agosto. Sono stati necessari l'esposto di un avvocato, Alessandra Ballerini, legale dell'associazione Terre des hommes e l'intervento del Tribunale dei minori di Palermo.

Altri due minorenni, 16 e 17 anni, sono stati feriti dalle pietre lanciate dalla sezione adulti durante la rivolta notturna di martedì scorso. E proprio in queste ore c'è preoccupazione per un caso sospetto di tubercolosi. Una donna tunisina, trasportata in elicottero a Palermo. Tossiva sangue. E' il secondo caso questa estate.

A fine agosto sono 225 i bambini e gli adolescenti rinchiusi da settimane nelle due strutture di detenzione di Lampedusa: 111 nel "Centro di primo soccorso e accoglienza" di Contrada Imbriacola, 114 nella base in disuso dell'Aeronautica militare. A poche decine di metri dai radar di scoperta aerea e di difesa antimissile. E dai campi elettromagnetici. La maggior parte ha più di 13 anni ed è partita senza genitori. Omar, Hamza e Maha sono i più piccoli.

Il racconto su Lampedusa deve cominciare da loro. Nell'autunno 2005 "l'Espresso" aveva denunciato le condizioni disumane nel centro di detenzione. Qualcosa di importante è migliorato. Adesso c'è maggiore trasparenza e minore isolamento: nonostante il divieto di ingresso ai giornalisti, le associazioni e l'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati possono monitorare da vicino l'attività delle forze dell'ordine.

Altro però è peggiorato. Per i bambini: nel 2005 i più piccoli venivano trasferiti in poche ore in strutture aperte. Per i migranti in cerca di lavoro: la crisi economica e la detenzione amministrativa prolungata fino a diciotto mesi stanno innescando una bomba sociale già esplosa con le rivolte nei Cie, i centri di espulsione. Per il rispetto della legalità: adulti, teenager e bambini vengono illegalmente reclusi a Lampedusa fino a due mesi senza nessuna convalida da parte di un giudice, come prevede la Costituzione. E per le casse dello Stato: dalle auto elettriche consegnate alla Guardia di finanza fino agli inutili quad per i pompieri. Mentre perfino albergatori e ristoratori sono sull'orlo della rivolta: la prefettura ha arretrati da marzo nei pagamenti di pasti e camere per le centinaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri di rinforzo sull'isola. Nel frattempo la gestione è passata dalla Misericordia, un tempo di area Udc, alla società LampedusAccoglienza imparentata a sinistra con la Legacoop.

Fabrizio Gatti
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Messaggio Da Lucy Gordon Gio 8 Set - 16:46

MILAN Lè UN BEL MILAN


MILANO, LESBICA PICCHIATA
A SANGUE AL RISTORANTE


MILANO - Era seduta con le amiche e la fidanzata al ristorante, quando è stata presa di mira da un uomo, che ha iniziato a rivolgerle alcuni pesanti commenti omofobi. E per aver risposto ad uno di questi, è stata picchiata, tra i clienti impietriti di un ristorante. Il fatto è successo ieri sera in via Raffaello Sanzio. Sul posto sono intervenute polizia e 118, che hanno raccolto la testimonianza dell'aggredita.
Il caso è stato denunciato, oggi, su Facebook, da una grafica milanese, Patrizia Lai, presente, ieri sera, sul luogo dell'aggressione. «Ieri sera, in una zona centralissima - ha scritto la 35enne - una lesbica a cena con le amiche e la fidanzata è stata pestata a sangue da una bestia d'uomo che poi è scappato e questo solo perché non gradiva vederle teneramente insieme. È stata pestata perché mentre faceva una foto con la fidanzata al tavolo accanto, questo tizio, che per tutta la sera le importunava con occhiate e battute chiaramente omofobe, l'ha appellata molto poco carinamente e lei ha risposto. E nessuno ha fatto niente».
«Dopo il violentissimo e fulmineo pestaggio con una raffica di pugni al volto (tanto da impressionare veramente tutti) fatto scagliandosi sulla ragazza seduta accanto alla fidanzata - ha ancora denunciato Patrizia, lesbica anche lei - questo omone palestrato sui 90/100kg, 35 anni di età, pelato e tatuato, ha continuato ad aggredirla verbalmente per almeno 5 minuti, tanto che io e le mie amiche che eravamo nel ristorante accanto ci siamo avvicinate. Lui gridava e voleva ancora picchiarla e la minacciava (era veramente fuori controllo), io mi sono messa in mezzo e con un altro signore siamo riusciti a separarli definitivamente. Lei era ricoperta di sangue. Naso forse rotto, labbra pestatissime. Lui intanto, mentre chiamavano la polizia, ha pensato bene di prendere e andarsene tranquillo verso la metropolitana. Due amiche dell'aggredita lo hanno inseguito ma lui avrebbe cercato di picchiarle».
La ragazza, secondo quanto riferisce la testimone oculare, ha detto di voler sporgere denuncia. La Questura conferma di essere intervenuta alle 23.20, in seguito alla segnalazione di una lite «per un uomo infastidito da tre ragazze». La vittima dell'aggressione è stata trasportata in codice verde all'ospedale San Carlo.

http://www.leggonline.it/articolo.php?id=137878

questi invece commenti di testimoni presenti, fonte personale:

era grosso come un orso e alteratissimo...violento e rozzo. Ha pestato perchè ha visto due ragazze baciarsi.
Era a un altro tavolo di un ristorante jappo.
Ma la polizia lo prenderà...si è fatto fotografare prima di scappare in metropolitana.




lei era piena di sangue...
Lui l'ha massacrata di pugni mentre lei era seduta..


Tutta la sera dal tavolo accanto lui le scherniva, quando poi le due ragazze si son baciate per una foto, l'ennesimo insulto. La tipa ha risposto sarcasticamente tipo "ma non sei gay anche tu?" è saltato sul tavolo e l'ha pestata a sangue e poi continuato a insultarla pesantemente (forse la tipa ha toccato um tasto dolente)...


ribadisco che per me era il classico omofobo di estrema destra.
Pelato, palestrato pasticcato pompato almeno 90/100kg, tatuaggione, maglia nera e jeans e scarpe da tennis...incazzatissimo e molto aggressivo e violento. non c'è scappato il morto perchè se l'è presa con una donna (che grazie a Dio era piazzata pure lei)


La mia domanda invece è più semplice: perchè nessuno è intervenuto?
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Messaggio Da anna Lun 19 Set - 10:33

TAVOLO LAVORO. La lotta di Omsa Faenza

Si era detto di aspettare settembre. Bene settembre è arrivato senza novità per le 242 operaie Omsa ancora in attesa della riconversione degli impianti faentini. Ma la lotta delle coraggiose lavoratrici non si arresta e nella trasferta romana del nostro blog, che lo scorso 10 settembre ha organizzato un Tavolo sul Lavoro in Piazza San Giovanni, c’erano anche loro. Tanto gentili perfino da portarci piadine e sangiovese, prodotti tipici della loro terra, quasi come quell’azienda che non c’è più.

Se si vuole ragionare in un’ottica aziendale diamo qualche numero di quello che è l’Omsa oggi: 347 dipendenti, di cui solo 80 posti in mobilità nel marzo scorso, due presidi organizzati in azienda, due boicottaggi realizzati per due diversi periodi nei Golden Point della regione, decine di proteste e manifestazioni, due anni di cassa integrazione e perfino la realizzazione di un documentario per raccontare la loro storia. Non è certo poco.

Tutto questo deriva dalla cronica mancanza di risposte e soluzioni da parte di una proprietà che nella persona di Nerino Grassi, patron Golden Lady, è sembrata trattare tutti senza rispetto. Ricapitoliamo. Tutto inizia con la cosiddetta crisi nell’inverno 2009-2010; l’Omsa ha deciso di ricollocare gli impianti faentini (da ben 71 anni produttivi in città) in Serbia. La cassa integrazione scatta a marzo 2010 per continuare fino ad ora. Nel frattempo ci sono i primi presidi in fabbrica per non far fermare la produzione.

Si arriva anche a collaborare con il Teatro dei due Mondi di Faenza e le operaie portano in giro nelle piazze la loro protesta con le Brigate Teatrali realizzando pure un documentario dal titolo emblematico “Licenziata” che vendono ad offerta libera per autosostenersi. Dopo un tavolo ed un accordo siglato ad inizio 2010 totalmente disatteso dall’azienda se ne firma un altro, non dopo interminabili mesi di inutili trattative con la proprietà si arriva a siglare un nuovo accordo a gennaio 2011 che prevede la riconversione dell’impianto e l’affidamento ad un advisor esterno di trovare i compratori con l’impegno dell’azienda a non chiudere il reparto tessitura, l’unico ancora attivo.

Puntualmente disatteso il reparto viene chiuso e ci si mette pure la Cgil a complicare le cose allontanando per motivi mai chiariti il coordinatore faentino Idilio Galeotti che si era battuto moltissimo per le operaie Omsa; tutto ciò causa la reazione di alcune operaie che riconsegnano la propria tessera Cgil. A seguito della chiusura del reparto tessitura il 22 marzo 2011 ripartono i boicottaggi dei Golden Point, nel frattempo le operaie sono ospiti della manifestazione Liberi Tutti organizzata da Michele Santoro, dopo essere già state diverse volte ad Annozero e Rai Per Una Notte e incontrano Susanna Camusso divenuta segretaria generale Cgil, ma ancora niente. L’estate passa senza notizie, senza che nessuno si degni di dare una risposta alle operaie e alle loro famiglie. Siamo così ai giorni nostri e all’orizzonte c’è solo fumo, segnale di una guerra che non è finita.

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Messaggio Da anna Mer 5 Ott - 14:30

Non sono femminista,
per carità!



Mentre torno a casa ascolto l’autoradio. È da sempre sintonizzata sulla stessa emittente privata, il cui editore è un anti-berlusconiano. Anche gli ascoltatori e le ascoltatrici sono nella quasi totalità anti-casta, anti Mister Patonza, anti-veline e tutto il resto. Mi trovo bene, come a casa mia.

Verso ora di pranzo va in onda una simpatica trasmissione di dediche e richieste. Oggi è il turno di una giovane donna che spiega il perché della sua scelta: tre canzoni di tre cantanti donne. Le ha scelte perché sono ‘in gamba’, perché sono eccezionali, perché hanno dato tutto e ce l’hanno fatta: in questo mondo di veline, ci vuole qualcuno che spieghi alle giovani e giovanissime generazioni di ragazze che le cose si ottengono con mezzi diversi da quelli che usano le escort.

La ragazza (prossima mamma, tra l’altro), con proprietà di linguaggio, spiega che non se ne può proprio più di come vengono trattate le donne in Italia e che ci vuole una bella sterzata da questa attuale deriva. Ma tra un bel pensiero e l’altro ci infila: “Intendiamoci, io non sono femminista, per carità!”.

Ohibò (e qui non posso metterci altro che un ‘ohibò’, per decenza), ma allora di che stiamo parlando? Una bella tirata sui costumi sessisti e sulla deriva dell’immagine della donna che argomento è? Enologia? Fisica astronomica? Economia aziendale? Volevo arrabbiarmi per bene, ma poi ho riflettuto sul fatto che gli stereotipi sessisti (nel linguaggio e nelle concettualizzazioni) attecchiscono anche nelle persone di buona volontà, come la ragazza che parlava alla radio.

Sarà vero quello che ho letto su L’Espresso in merito alle nuove ragazze-arrabbiate-contro-la-deriva-sessista? Sarà vero che usano gli stessi slogan e sono spinte dalla stessa rabbia dei movimenti femministi di circa quarant’anni fa? Ma per carità, non diciamo che sono ‘femministe’. Questa parola fa paura. Ma perché?

Le donne italiane sanno bene che la situazione è grave; le donne italiane sanno pure che escort e veline parlano per loro stesse, anzi straparlano (come la T-shirt della Minetti e l’intervista della De Nicolò). E le donne italiane non sono tutte come le signorine appena citate. Eppure, c’è il terrore di chiamare questa rabbia e questo scontento con il nome più appropriato: ‘femminismo’. E come lo vogliamo definire, di grazia?

Perché le ‘femministe’ (o il loro ricordo) fanno così paura? Non hanno vinto niente, le femministe di allora, cioè non hanno vinto nulla per le generazioni attuali. Non è questa la sede per capire cos’è che è andato storto (ipotizzerei un certo rilassamento nel combinato disposto con l’adesione a modelli edonistico-individualistici con successivo sdoganamento del porno, anche quello soft). È tutto da fare, o rifare. I dati li conosciamo. Ai colloqui ti chiedono sempre se hai intenzione di fare figli, anche se hai appena vent’anni o hai superato la quarantina. Viviamo in uno dei peggiori posti per le donne, come da indagine pubblicata da Newsweek. Ma non si deve dire, non si deve ripeterlo.

Quando scriviamo articoli e post sull’argomento veniamo tacciate di femminismo come fosse un insulto (a proposito di insulti, giusto una puntualizzazione per i nostri più agguerriti commentatori. Sì, è vero che nel mondo vengono assassinati più uomini che donne, ma nei cosiddetti ‘femminicidi’ le donne vengono ammazzate in quanto tali, per motivi sessisti, cioè.)

Una femminista famosa, Betty Friedan, aveva definito il femminismo come ‘il-problema-senza-nome’. Vuoi per la gravità e l’enormità, vuoi per l’avversione tutta post-Prima Ondata nei confronti della parola. Germaine Greer ha pure cercato di consigliare la parola ‘liberazione della donna’ al posto di ‘femminismo’, per nominare il movimento dagli anni ’60 in poi. L’avversione alle questioni di genere ha condotto a quell’aberrazione che va sotto il nome di Raunch Culture, fatta di sguaiatezza femminile spacciata come libertà e liberazione (da cosa? Da chi?) raccontata da Ariel Levy in Sporche femmine scioviniste. Non è vero che va tutto bene, altrimenti non avremmo addirittura un primo ministro che afferma: “La patonza deve girare.”

Perché non dire che il problema delle disparità di genere esiste? O dobbiamo dare ragione a bell hooks (proprio così, in minuscolo) quando afferma che le donne sono sistematicamente convinte (da qualunque estabilishment, politico, religioso, culturale) ad accettare la loro situazione in quanto non c’è modo di cambiarla? (Volendo si può, seguite questo link.)

Leggo spesso articoli e post in cui le autrici sono costrette a edulcorare parole e concetti intorno al femminismo e alle questioni di genere per non essere denigrate, offese e maltrattate. Come se dovessero tutte scusarsi con un “Non sono femminista, per carità!” Come se le parole ‘diritti’ e ‘rispetto’ trasformassero le donne in vecchie ingrigite e spente, quando invece è tutto un trionfo di latex e lipstick (si parla anche di femminismo allo stiletto, tipo quello di Sex and the City). Sempre citando la Levy: “Molte donne si sono convinte che mostrare le tette ricoperte di lustrini sia una forma di potere.”

Qualcuna, in Italia – grazie al potere delle tette – diventa consigliere regionale, qualcuna la parlamentare e qualcun’altra addirittura è ministro, perché non sono femministe. Per carità!
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Messaggio Da anna Lun 17 Ott - 13:00

Omsa, cronaca di una morte annunciata. Le operaie restituiscono le tessere Cgil

"Siamo state abbandonate anche dalla Camusso". La produzione del gruppo Golden Lady - che si fregia ancora del marchio made in Italy - è trasferita totalmente in Serbia. La riconversione del sito produttivo resta un miraggio. Così è scomparsa dalla scena una delle ultime grandi industrie della Romagna


L’Omsa come la Vynils: cronaca di una morte annunciata. A Faenza non ci sono segnali per la riconversione del sito produttivo. Non migliore è la situazione negli stabilimenti dell’industria chimica di Porto Torres e Marghera, che sono prossimi alla chiusura.

Se ne è parlato alla libreria Mody Dick di Faenza in un incontro organizzato dal “Gruppo dello zuccherificio per la legalità, la Costituzione e la libera informazione”. Invitati, a colloquio con una rappresentanza delle operaie dell’Omsa, Michele Azzu e Marco Nurra, autori del libro “Asinara revolution” e inventori del blog www.isoladeicassintegrati.com.

I due ventisettenni sardi e le operaie faentine si sono conosciuti in Piazza San Giovanni a Roma, lo scorso 10 settembre, in occasione di un tavolo sul lavoro organizzato dal blog dell’Isola. C’erano Indignati, esponenti del Popolo viola e rappresentanti di tutte le principali vertenze lavorative italiane: Vinyls, Omsa Faenza, Tacconi, Agile-Eutelia, Basell, Fiat, Teleperformance, Aiazzone, Teatro Valle Occupato.

Sono 242 le operaie ancora in forza allo stabilimento produttivo della Golden Lady Spa, di cui il marchio Omsa fa parte. Solo 30 di loro varcano i cancelli degli stabilimenti produttivi per 4 ore al giorno e intanto la sabbia nella clessidra della cassintegrazione continua a scorrere inesorabile. Restano solo 5 mesi al 14 marzo 2012, giorno in cui cesseranno gli ammortizzatori sociali. Intanto di soluzioni in vista neanche l’ombra.

Alla Vynils pare che un accordo sia stato trovato solo per i 35 operai della fabbrica ravennate, mentre ai colleghi di Porto Torres e Marghera (200 per stabilimento, più tutte le migliaia dell’indotto) non resta che la protesta a oltranza. In Sardegna la forza è quella della disperazione di chi capisce che non ce la farà, nonostante un anno e mezzo di occupazione dell’Asinara, un paradiso della natura tutt’altro che ospitale. A Marghera invece gli operai sono tornati sulla torcia dell’impianto, una torre alta 150 metri.

Il 25 maggio e il 25 luglio sono stati organizzati due tavoli ministeriali, il primo a Bologna, il secondo a Roma, per rilevare e riconvertire il sito produttivo dell’Omsa. A maggio nella sede bolognese della Regione c’erano Gianpiero Castano del ministero dello Sviluppo economico, Giancarlo Muzzarelli assessore regionale alle attività produttive, Claudio Casadio presidente della Provincia di Ravenna, Giovanni Malpezzi sindaco di Faenza, Germano Savorani assessore al lavoro del Comune Manfredo e l’azienda Golden Lady rappresentata dal responsabile del personale Federico Destro. In quella data è stato individuato l’advisor che si deve occupare di trovare investitori interessati all’acquisto dei due grandi capannoni di proprietà della Golden Lady. L’uomo designato per questo ruolo chiave è l’ingegnere Marco Sogaro, rappresentante della società torinese di consulenza fiscale Wollo Srl. Sogaro, raggiunto telefonicamente dal fattoquotidiano.it ha dichiarato di non poter fornire alcun dettaglio sulla vicenda Omsa, in quanto legato a “un patto di riservatezza” con la proprietà Grassi.

Ma da chi ottenere risposte, se i proprietari storicamente hanno scelto la linea del silenzio? In questi anni l’interlocutore aziendale, l’uomo che siede ai tavoli ministeriali per Golden Lady è stato Federico Destro, l’uomo irreperibile, perennemente fuori azienda quando lo si cerca. La sua linea è sempre stata quella del silenzio: mai una parola con la stampa.

Il 25 luglio è stata la volta di un secondo incontro al Ministero dello sviluppo economico, due mesi dopo il tavolo di maggio. In quell’occasione l’incontro con il ministro Paolo Romani è servito a verificare a che punto fosse l’attività dell’advisor incaricato, ma nulla di fatto, ancora una volta.

“Ci sono dei contatti” è il mantra che si sentono ripetere le operaie, ma quali non è dato loro sapere, per “una questione di riservatezza”.

Poche parole si lasciò sfuggire Sogaro a giugno, quando da poco aveva ricevuto l’incarico: “Comprendo l’aspetto sociale del problema, ma i tempi sono dettati da una situazione congiunturale di mercato che non dipende da noi”.

Da chi dipendano i loro guai lo sanno le operaie dell’Omsa. È diretta la denuncia della Filctem Cgil alla proprietà di Nerino Grassi, l’imprenditore di Castiglione delle Stiviere che “ha deciso di chiudere lo stabilimento di Faenza per continuare ad arricchirsi in Serbia, non rispettando l’accordo firmato al ministero dello Sviluppo economico il 18 febbraio scorso, il quale prevede di proseguire con la produzione ancora esistente e con la riconversione e rioccupazione delle lavoratrici”.

Un gruppo ristretto di queste continua a portare avanti l’impegno quotidiano, per mantenere i riflettori accesi sulla vertenza. Iniziano però a serpeggiare i malumori di chi sente di aver giocato ormai tutte le carte: la via sindacale, l’apparizione mediatica, la realizzazione del documentario “Licenziata” per la regia di Lisa Tormena, le “brigate teatrali dell’Omsa”, per raccontare attraverso il palcoscenico la favola nera dell’azienda, fino al boicottaggio dei negozi Golden Lady, presidiandone l’entrata nei sabati dello shopping.

Alcune operaie iniziano a nutrire anche una certa disillusione nei confronti dell’appoggio fornito dal sindacato. Non è stato chiarito ufficialmente dai vertici della Cgil perché sia stato rimosso dal suo incarico Idilio Galeotti, coordinatore Cgil del comprensorio faentino. Al sindacalista si deve la strategia, adottata sin dalla prima ora, che ha permesso alle lavoratrici di Omsa di arrivare ad Annozero e dare alla vertenza la eco che merita. Intanto molte operaie hanno restituito la tessera al sindacato, convinte che la mossa di ‘far fuori’ Galeotti sia da iscrivere in un contesto più ampio che giustifica -come si legge nel sito del Popolo viola di Faenza- “il sospetto che buona parte del mondo politico-istituzionale e sindacale avesse avallato da tempo la scelta di Golden Lady di chiudere l’Omsa e per questo avrebbe preferito il silenzio sulla vertenza”.

Accuse di un certo peso che un’operaia, sul suo profilo di Facebook, non ha risparmiato neppure al segretario generale della Cgil Susanna Camusso: “È avvilente, le abbiamo provate tutte! Prima abbiamo chiesto, poi gridato poi anche minacciato e raccolto firme. Abbiamo protestato con la Cgil provinciale, con quella regionale e addirittura con la nazionale, ma anche la signora Camusso che sbandiera tanto i diritti delle donne non ha voluto aiutarci”.

I problemi della faentina Omsa hanno ormai varcato i confini regionali e riguardano altri siti produttivi della Golden Lady. La multinazionale ha deciso di ridurre drasticamente la sua presenza in Italia: anche negli stabilimenti di Gissi (Chieti) e di Basciano (Teramo) sono in discussione centinaia di posti di lavoro e si prospetta il rischio chiusura.

Fa ridere, di un riso amaro certo, leggere sul sito in quattro lingue della Golden Lady che l’azienda si promuove come “un nome del made in Italy”, “una grande impresa che cammina insieme alla donna italiana” in “un percorso lineare fatto di valori precisi”. Bisognerebbe chiedere alle dipendenti dell’Omsa, “donne italiane”, se ritengono che la delocalizzazione si possa considerare un valore.

Non basta: anche la “mission” dell’azienda è un degna di nota: tra i “fattori che hanno contribuito al successo dell’azienda – si legge – c’è una capacità di adattamento ai cambiamenti del mercato veloce e funzionale alle richieste”. Come dare torto a Golden Lady? Senza dubbio l’azienda è stata veloce, quanto inamovibile, nella sua decisione di spostare il ciclo produttivo in Serbia.

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Messaggio Da Lucy Gordon Mar 18 Ott - 10:47

cara Anna il potere è nelle mani sbagliate, essere imprenditore dovrebbe anche dire: essere fiero di far del bene nella comunità dove si lavora, ma questa è utopia.

Oggi vi voglio riportare gli articoli di due eroi veri. Di quelli che si immolano per i propri ideali,contro il potere becero, nella speranza che i loro sacrifici non siano stati inutili.

Filippine, sacedote italiano ucciso da un sicario davanti alla sua parrocchia

L'assassino lo ha atteso all'uscita di casa, con il volto coperto da un casco, e dopo aver esploso tre colpi da distanza ravvicinata è fuggito in motocicletta assieme al complice. E' morto così questa mattina Fausto Tentorio, un sacerdote italiano nel sud delle Filippine dal 1978 e in prima linea nella difesa degli indigeni di fronte agli interessi dell'industria mineraria e delle grandi piantagioni. Con il delitto rimasto senza rivendicazione e al momento sprovvisto di un movente, le autorità locali stanno orientando le loro indagini proprio in questa direzione. Padre Tentorio, 59 anni, aveva appena detto messa nella città di Arakan e stava andando a un incontro con altri religiosi nella diocesi di Kidapawan, nell'isola di Mindanao. L'assassino non ha ancora un volto: alcuni parrocchiani, allertati dagli spari, hanno solo potuto vedere i due uomini dileguarsi.Il sacerdote è stato portato nell'ospedale più vicino, dove però è arrivato già privo di vita. Originario del Lecchese, aveva già ricevuto intimidazioni da parte di una milizia paramilitare, i Bagani e nel 2003 era scampato a una loro imboscata. Ma recentemente, secondo altri religiosi presenti nella zona, la situazione sembrava essersi calmata. "Penso sia stato ucciso per vecchi rancori", dice il fratello Felice da Santa Maria Hoè, il paesino natale di padre Tentorio. Nel suo impegno pastorale, "padre Pops" - come lo chiamavano affettuosamente i locali - difendeva la causa degli indigeni Lumad, che lottano per il riconoscimento delle terre ancestrali. Li assisteva nelle cure sanitarie, organizzava lezioni per i loro figli: uno sforzo che lo aveva reso estremamente benvoluto nella valle di Arakan, una terra di foreste e agricoltura di sussistenza, ricca di risorse naturali. E che perciò lo metteva anche in rotta di collisione con le mire dei proprietari terrieri della zona, dove operano con impunità signorotti locali con milizie private, separatisti musulmani, guerriglieri comunisti e un esercito impegnato nella loro repressione.Padre Tentorio era un irriducibile attivista contro la penetrazione delle compagnie minerarie (come l'anglo-svizzera Xstrata) nel territorio, ricco d'oro e altri metalli. Non lesinava dichiarazioni polemiche verso le autorità filippine: "E' chiaro che l'esercito governa questo Paese. Finché le forze armate non si sottometteranno al governo civile, non ci sarà pace per le singole comunità", aveva detto l'anno scorso a un forum locale. Le associazioni regionali dei diritti umani accusano il governo di Benigno Aquino di non aver fatto abbastanza per porre fine all'atmosfera di impunità; quest'anno altri cinque attivisti contro le miniere erano già stati uccisi.La task force istituita dalla polizia locale, intanto, ha lanciato una caccia all'uomo che però ha ancora portato a sviluppi; sono solo stati rinvenuti i bossoli dell'arma usata nel delitto, una pistola calibro 9. "Fausto cercava di dare alle popolazioni tribali un riconoscimento all'interno della società filippina, difendendo i loro diritti. Era la voce di chi non ha voce", spiega padre Giulio Mariani, un missionario del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime) a Zamboanga, che lo conosceva dagli anni Settanta. Una voce amata dai più deboli, ma probabilmente scomoda per altri.

http://notizie.tiscali.it/articoli/esteri/11/10/17/sacerdote-ucciso-filippine.html



Suora si immola contro l'occupazione cinese
E' il nono caso negli ultimi otto mesi



SHANGHAI - Una suora tibetana si è data fuoco per protestare contro l'occupazione cinese. Tenzin Wangmo, 20 anni, è la nona persona che si immola dal marzo scorso, la prima donna. Nel solo mese di ottobre gli episodi di questo tipo sono stati cinque.

Fonti del governo tibetano in esilio in India hanno reso noto che la religiosa si è data fuoco nei pressi del suo monastero, il Mamae Dechen Choekhorling Nunnery, a circa tre chilometri dalla città di Ngaba (Aba per i cinesi), nella provincia sud occidentale del Sichuan.

In un comunicato del monastero in esilio di Kirti (la cui sede principale a Ngaba è da mesi assediata dalla polizia cinese e che è stata teatro della maggior parte delle otto precedenti immolazioni di tibetani), si dice che la donna, avvolta dalle fiamme, ha camminato per strada per circa otto minuti cantando e urlando slogan anticinesi e in favore del Tibet libero e del ritorno del Dalai Lama. Il suo corpo, nonostante il divieto degli agenti, è stato portato nel monastero, dove è stato vegliato dalle altre suore.

E' alta ora la tensione intorno al monastero femminile di Mamae, il più grande della zona, con oltre 350 suore. Per domani, il governo tibetano in esilio in India e il Dalai Lama hanno organizzato una veglia di preghiera e digiuno per i tibetani che si sono immolati.

http://www.repubblica.it/esteri/2011/10/18/news/tibet_18_ottobre-23405996/?ref=HREC1-5

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Messaggio Da ubik Mer 19 Ott - 22:40

Lettera 10
Caro Dago, sento alla radio uno spot che parla di aiuti alle famiglie per un nuovo nato e vado a vedere il sito cui rimandano: fondonuovinati.it <http://fondonuovinati.it> .
Mi appare la ghigna di Giovanardi che fa pubblicità a se stesso, e poi la spiegazione. Il buon sottosegretario offre alle famiglie con un nuovo nato un prestito fino a 5.000 euro, da restituirsi entro 5 anni. Provo a moltiplicare l'importo di ogni rata per il loro numero, e scopro che chi prende in prestito 5.000 euro deve restituirne 5.731,8. E infatti il TAEG è 5,65. E questo sarebbe il sostegno alla famiglia? Faceva molto meglio il duce.
Roland Delmay.

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Messaggio Da Lucy Gordon Dom 4 Mar - 19:37

Strage dalla follia a Brescia.


Follia a Brescia, dove un uomo di 34 anni ha ucciso l'ex moglie 45enne e altre tre persone. Mario Albanese, 34enne, camionista originario di Modugno in provincia di Bari, si era appostato sotto la casa di famiglia per aspettare la ex, Francesca Alleruzzo, maestra in una scuola elementare di San Polo. Quando l'ha vista arrivare con il suo nuovo compagno, Vito Macadino di 56 anni, ha fatto fuoco. Poi è salito e, incurante della presenza nell'appartamento delle tre figlie di soli 9, 6 e 5 anni che aveva avuto dalla donna, ha sparato ancora con la sua calibro 92 dalla matricola abrasa, colpendo la figlia che l'ex moglie aveva avuto da un precedente rapporto e il suo fidanzato, entrambi 19enni.

La ragazza da qualche tempo si era trasferita a Brescia dove viveva la mamma per starle vicino dopo l'ennesima delusione d'amore che aveva portato la donna ad interrompere la sua relazione con Mario Albanese. Infatti i due fidanzati, lui di Salice, lei di Catona, quartieri popolari alla periferia nord di Reggio Calabria avevano una relazione stabile, così da quando Chiara si era trasferita a Brescia, Domenico ogni quindici giorni affrontava il lungo viaggio per trascorrere qualche giorno insieme alla sua ragazza.


2012:
2 gennaio Lenuta Lazar 31, Chiesuol del Fosso.
3 gennaio Yuezhu Chen (Jenny) 43, Milano.
6 gennaio Antonella Riotino 21, Putignano
9 gennaio Fabiola Speranza 45, Atripalda.
11 gennaio Sharna Abdul Gafur 18, San Rocco di Monza.
12 gennaio Stefania Mighali 40, Daniela Fiorentino 8, Nunzia Rindinella 77, Trapani.
14 gennaio Rosetta Trovato 38, Scicli. Grazyna Tarkowska 46, Civitanova Marche.
15 gennaio Enza Cappuccio 33, Marano di Napoli.
27 gennaio Christina Andrea 24, Ascoli Piceno.
4 febbraio Domenica Menn 24, Parma.
7 febbraio Rosanna Siciliano 38, Palermo.
13 febbraio Antonia Bianco 43, Milano.
16 febbraio Edyta Kozakievwicz 39, Modena.
23 febbraio Wally Urbini 89, Cesena.
24 febbraio Fernanda Frati 70, Pordenone.
1 marzo Patrizia Klear 31, Grottaminarda.
2 marzo Gabriella Lanza 49, Napoli.
4 marzo Francesca Alleruzzo 45, Chiara Matalone 19, Brescia.


La strage continua.
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Messaggio Da anna Dom 4 Mar - 19:49

e lo chiamano amore...

io mi pongo una domanda: si può parlare di follia di fronte a crimini così diffusi?
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