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Messaggio Da ubik Dom 27 Mag - 21:10

Marco Giusti per Dagospia

Cannes 2012. E' andata cosi'. Primo Haneke, secondo Garrone, terzo Loach. La Francia non vince nulla, gli americani neppure e il resto del mondo, austriaci, italiani, rumeni, messicani e danesi tutto. Un disastro per la grandeur del cinema francese, che ha cercato di far passare come premio nazionale quello a "Amour" di Haneke, che e' prodotto e interpretato da francesi, ma non e' nell'anima un film francese.

Un disastro per Leos Carax, che vedeva questo Cannes come il suo grande ritorno. E per Jacques Audiard che sperava di veder premiata almeno la sua protagonista Marion Cotillard. Ma non ridono neanche gli americani, che pure trionfarono l'anno scorso con "The Tree Of Life", che ottengono solo la Camera d'Or.

Eccoli i premi. Palma d'oro a "Amour" di Michael Haneke, e qui non ci sono mai stati dubbi, considerato da tutti il miglior film visto al festival. Grand Prix a Matteo Garrone per "Reality", premio accolto non troppo bene in sala, ma che premia un regista di grande talento.

Prix de la mise en scene al fischiatissimo "Post Tenebras Lux" del messicano Carlos Reygadas, belle scene ma poco comprensibile. Reygadas e' un grande regista, ma questo non e' certo il suo film migliore. Poi magari, un giorno, ce lo spiega. Prix de la Jurie all'altamente alcolico "The Angels' Share" di Ken Loach, commedia inglese perfetta, ma un po' inutile da premiare dopo tanti onori riservati gli anni scorsi a Loach.

Premio per la miglior interpretazione maschile al bonissimo Mads Mikelssen, come maestro accusato ingiustamente di pedofilia in "La Caccia" del danese Thomas Vintemberg. Grande attore (e' stato anche il cattivo di "Casino Royale"), giustamente premiato, deve molto anche un film di grande tenuta narrativa.

Premio per la migliore interpretazione femminile a Cosmina Flutur e Cristina Stratam, le due strepitose protagoniste di "Oltre le colline" di Mungiu. Vestite al meglio della moda rumena, hanno massacrato con la loro ingenuita' gli abiti firmatissimi delle star presenti in sala. Alla faccia di Dior e Dolce e Gabbana. E anche alla faccia di Kristen Stewart e Marion Cotillard. Onore al cinema rumeno.

Prix du scenario, cioe' per la migliore sceneggiatura, a "Oltre le colline" del rumeno Cristian Mungiu, veramente poco scritto, visto il gran lavoro che fa Mungiu sugli attori e sulla messa in scena. La Camera d'Or, il premio per la miglior opera prima, va senza discussioni al bellissimo "Beasts of the Southern Wild" di Benh Zeitlin, il film passato a Un Certain Regard sull'uragano Katrina visto attraverso gli occhi di una bambina, la buffa Hushpuppy, che si accende la minestra con la fiamma ossidrica. E su questo siamo tutti d'accordo.

Comunque stavolta i francesi ci sono rimasti proprio male e se la prenderanno non poco col presidente della giuria Nanni Moretti (ma non lo sapevano com'era? Che si aspettavano?), che e' riuscito nell'impresa facilissima di far premiare un film non cosi' immediato come "Reality" di Garrone. L'anno scorso Sorrentino con "This Must Be The Place" non ottenne nulla, ricordate? Dopo una stagione entusiasmente, dopo l'Oscar a "The Artist" e il successo internazionale di "Quasi amici", i francesi erano sicuri che un premio maggiore andasse o al solido Jacques Audiard per "De rouilles et d'os" o all'ex ragazzo terribile Leos Carax per "Holy Motors" o all'arzillo novantenne Alain Resnais per "Vous n'avez encore rien vu".

Certo, anche "Amour" di Haneke e' di produzione francese, per non parlare di film coprodotti (tra cui lo stesso "Reality" di Garrone), ma i francesi hanno bisogno di dominare totalmente questo festival e di espandere il proprio mercato. Megalomani, certo, pero' loro ci credono e noi no. Di previsioni in queste ultime ore se ne erano fatte anche troppe. Dal premio a Aniello Amato, il protagonista di "Reality" di Matteo Garrone, dato come sicuro (con annesso scandalo, visto che sta scontando un ergastolo per triplice omicio), poi alla possibilita' di un premio maggiore a Garrone stesso.

I giornalisti francesi, dopo essere partiti all'assalto della Palma d'Oro con la vittoria sicura di Leos Carax, molto sponsorizzato da LesInrock, si erano messi a piangere gia' a un'ora dall'inizio della cerimonia finale del festival, che la giuria morettiana non aveva messo nessun regista francese tra i cinque premi maggiori, che sarebbero andati a Haneke, Mungiu, Garrone, Vintenberg e Reygadas.

Di sicuro, in verita', c'era solo la pioggia, che puntualmente rovinava anche la cerimonia finali e i premi che erano gia' stati assegnati nelle altre sezioni. La Quinzaine de Realisateurs premiava il bellissimo film cileno "No" di Pablo Larrain (e su twitter si sprecavano battute e incompresioni sul titolo del film), dedicato al referendum del 1988 in Cile sul governo Pinochet.

Un Certain Regard, poi, dove la giuria presieduta da Tim Roth dava il premio maggiore al film messicano "After Lucia" di Michel Franco, alla sua opera seconda, pesantissima storia di violenza ai danni di una ragazza in quel di Citta' del Messico.

Altri premi di Un Certain Regard andavano ai francesi Benoit Delpine e Gustave Kervern per "Le Grand Soir" e allo slavo Aida Begic per "Children of Sarajevo", mentre i premi per i migliori attori andavano alla canadese Suzanne Clement, che sopporta la trasformazione del suo uomo in femmina in "Laurence Anyways" di Xavier Dolan, e Emilie Dequenne in "A Perdre la Raison" di Joachim Lafosse. Il premio Fipresci e altri due premi minori andavano a "Beasts Of The Southern Wild" di Benh Zeitlin, che avrebbe poi vinto anche la Camera d'Or e e' gia' stato segnalato come uno dei maggiori film americani dell'anno.

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Messaggio Da picpiera Gio 31 Mag - 21:42

Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 Locand10

TRAMA
Nel 1956, fresco di studi compiuti in scuole come Eton e Oxford, Colin Clarke lavorava come assistente di Sir Lawrence Olivier sul set del film Il principe e la ballerina, nel quale Marilyn Monroe - appena sposatasi con Arthur Miller - recitava al fianco del grande attore inglese. Clark raccontò di quell'esperienza in un libro, tralasciando però di parlare di una specifica settimana che è invece al centro di My Week With Marilyn: una settimana in cui fu incaricato di prendersi cura dell'attrice che necessitava di un periodo di pausa per riprendersi dalle pressioni che sentiva sul set del film.

Distribuito da Lucky Red, Marilyn il film uscirà al cinema il prossimo 1 giugno. La pellicola è diretta da Simon Curtis, nel cast: Michelle Williams, Kenneth Branagh, Julia Ormond, Eddie Redmayne, Dougray Scott, Judi Dench, Pip Torrens, Emma Watson, Geraldine Somerville, Michael Kitchen, Miranda Raison, Toby Jones, Philip Jackson, Robert Portal, Jim Carter, Victor McGuire
http://pellicolerovinate.blogosfere.it/2012/05/marilyn-film-uscita-trama-trailer-fotogallery-con-michelle-williams-nel-ruolo-della-star.html
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Messaggio Da ubik Gio 31 Mag - 23:07



curato e patinato e la protagonista sembra interessante Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 79629

ma la love story col ragazzo non mi convince nemmeno un po' e non ne ricordo traccia in nessuna delle mie letture sulla biografia di marilyn Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 30341 Suspect
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Messaggio Da picpiera Sab 2 Giu - 18:51

anche a me non convince questa love story Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 197349 ...dice che si è preso cura di Marilyn per una settimana e.... Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 197349 la protagonista era la moglie di heat ledger
(attore scomparso due anni fa Suspect ) penso non sia stato facile interpretare questo ruolo perchè Marilyn è Marilyn però da alcune recenzioni sul film la sua prestazione è stata giudicata positivamente Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 79629
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Messaggio Da ubik Sab 2 Giu - 20:16

aaahhhh, ecco chi è Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 378480 non me ne ero reso conto Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 30341 Suspect Suspect grazie dell'informazione piera Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 561231

lei è già stata candidata all'oscar come attrice non protagonista per il ruolo della moglie di Heat in I segreti di Brokeback Mountain Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 79629

anzi, vedo da wiki che è stata candidata all'oscar anche per questa interpretazione di Marilyn Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 561231

wikipedia
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Messaggio Da picpiera Sab 2 Giu - 20:51

Ubik Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 769300 stai diventanto anche tu un agente speciale ma super Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 79629 Il Cinema sulla stampa - Pagina 13 79629
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Messaggio Da anna Ven 22 Giu - 21:27

Marley: recensione in anteprima del documentario su Bob Marley

Afferrare lo spirito e il ritmo che hanno animato l’uomo e il mito, entità inscindibili dell’icona Bob Marley, è forse un‘impresa troppo ardua anche per un documentario che si avvale di prezioso materiale inedito, ma bisogna riconoscere a Marley di Kevin MacDonald un ritmo e un montaggio che ci restituiscono tanto Bob e sfumature sconosciute di una leggenda controversa e inafferrabile.
Marley cuce le vicende dell’uomo, del musicista e del rivoluzionario con quelle del simbolo, le foto con i video d’epoca, le interviste lontane dalla scena con i live sul palco, le evoluzioni di una leggenda Soul Rebel con la storia dell’epoca che ha influenzato, seguendo un ritmo coinvolgente, che fa scorrere velocemente anche 140’ di visione ininterrotta.
Visione che dopo aver raggiunto la sezione Berlinale Special del 62.mo Festival di Berlino, martedì 26 giugno 2012, Lucky Red porta anche nelle nostre sale italiane, con un evento di un solo giorno, mentre la colonna musicale capace di sedurre anche un anaffettivo, con il miraggio dell’amore universale cantato da un rivoluzionario dello spirito, suona già in “BOX 2CD” e triplo vinile (in edizione limitata) con
Universal Music.

L’ostinazione del ragazzo meticcio, figlio di un inglese ‘bianco’ a cavallo (di 60 anni) e di una giamaicana ‘nera’ povera (di 16 anni), nel limbo dei non bianchi e non neri, la passione per il metodo e l’ispirazione del giocatore di calcio, l’evoluzione dell’identità spirituale del devoto al rastafarianesimo, e quella etica e musicale dell’uomo capace di parlare al mondo intero, emergono dalla cronologia della vita e della carriera di Robert Nesta Marley, attraverso le testimonianze di quanti l’hanno condivisa e i contributi inediti custoditi dagli archivi privati famiglia Marley.
L’inquietudine, il talento per la musica, la passione per il calcio, il bisogno di spiritualità e la ricerca di armonia universale, compagne della breve e intensa vita di Bob Marley emergono nel lungo viaggio, dall’infanzia povera alla morte prematura, da quartieri periferici di Trenchtown alla villa di Kingston, dal ‘pop’ dei The Teenagers al reggae di Bob Marley and The Wailers, dal piccolo e improvvisato studio di registrazione al grande palco del “One Love Peace” del 1978, quando riesce ad unire le mani dei rivali politici della Giamaica indebolita da debito estero e povertà.
Il ragazzo che amava cantare, raccontato (cantato) dalla sua vecchia insegnante, il giovane determinato e rigoroso che l’amico Bunny - Neville O’Riley Livingston spinge alla carriera di musicista, l’uomo con un gran bisogno di amore, del quale sono testimoni anche le donne della sua vita e i tredici figli nati da sette relazioni diverse, il coraggioso e paziente malato di cancro che ha commosso l’infermiera tedesca, sono solo alcune delle sfaccettature di un carattere complesso e pieno di contraddizioni.
Le stesse contraddizioni che hanno elevato il suo spirito con la marijuana, la sua ricchezza con la vita, e nutrito la musica con le parole del signore e i suoni del mondo, diffondendo ovunque il messaggio politico, sociale e spirituale, di un uomo ucciso dal cancro a 36 anni e di un profeta che vivrà in eterno.
Forse Marley non riuscirà a svelare al vostro cuore come Bob è riuscito a parlare a quello di tanti uomini (e donne), ma ci proverà perché il ritmo è coinvolgente, il messaggio contagioso e il protagonista è convincente.
Se lo perdete al cinema è un peccato, ma potete recuperarlo da ottobre 2012 in Homevideo, quando Feltrinelli Real Cinema lo renderà disponibile in un cofanetto dvd + volume.
Voto di Cut-tv’s: 7
Marley (2012, documentario) di Kevin MacDonald; con Ziggy Marley, Jimmy Cliff, Rita Marley, Cedella Marley, Cindy Breakspeare, Chris Blackwell, Lee Perry, Danny Sims, Bunny Wailer, Lee Jaffe. Uscita in Sala: 26 Giugno 2012 - Qui il trailer italiano.
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Messaggio Da ubik Gio 12 Lug - 23:48

Che fine ha fatto Baby Jane? Remake del film cult diretto dal regista Walter Hill

E' stato annunciato il remake del film cult del 1962 diretto da Robert Aldrich con Bette Davis e Joan Crawford. Secondo voi chi potrebbe prendere il posto delle due attrici?

E' tempo di remake anche per il Che fine ha fatto Baby Jane?, il film del 1962 diretto da Robert Aldrich con Bette Davis nei panni dell'ex bimba prodigio del canto e Joan Crawford in quelli della perfida sorella Blanche, da lei trattata sempre in modo altezzoso e sprezzante e costretta ad un terribile isolamento in seguito a un misterioso incidente automobilistico.

A sviluppare e realizzare l'ambizioso progetto di remake sarà Walter Hill (sì, quello deI guerrieri della notte) che ha da poco terminato le riprese dell'action movie Bullet to the Head con protagonista Sylvester Stallone. Ad affidare la sceneggiatura e la regia del film a Walter Hill, è stata la The Aldrich Company, detentrice dei diritti del remake. La società appartiene alla figlia del regista del film originario, Adell, che ha dichiarato: "Sono davvero onorata che Walter Hill si sia unito a noi per collaborare alla realizzazione di questo film. So che lui rispetterà il materiale e l'eredità di questo straordinario progetto".
Non dimentichiamo che anche Aldrich, come Hill, ha da regista girato moltissimi film western e d'azione.

Un remake del film c'è già stato nel 1991, ma allora si è trattato di una serie televisiva dal titolo What Ever Happened to Baby Jane?, con le sorelle Lynn e Vanessa Redgrave. Inoltre, se nella pellicola del 1962 le due attrici interpretavano due sorelle, nella realtà erano acerrime rivali (per Bette Davis arrivò nello stesso anno una nomination agli Oscar come Miglior attrice protagonista). Ci siamo limitati a dare la notizia perché le imprecazioni sarebbero state impubblicabili. Solo una domanda: secondo voi chi è meritevole di raccogliere l'eredità di Bette Davis e Joan Crawford per il remake di questo capolavoro senza farci urlare di dolore per il sacrilegio compiuto?



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Messaggio Da anna Gio 19 Lug - 12:36

Brucia nella notte a Cinecittà lo storico Teatro 5 di Fellini
Il famoso teatro di posa di Cinecittà reso praticamente inagibile dall'incendio scoppiato nella notte. Non si esclude la pista dolosa.


Il fumo e l'odore ha invaso nella notte tutto il quartiere creando paura tra i residenti. A distruggersi, avvolto tra le fiamme, vi era lo storico Teatro 5 di Cinecittà, il teatro di posa più grande d'Europa che ha visto al suo interno crearsi capolavori del Cinema come Amarcord e La Dolce Vita, ultimamente protagonista di molte trasmissioni televisive. Ad indagare sulle cause dell'incendio vi è la polizia del commissariato Romanina che, data la delicata situazione di Cinecittà in questo periodo posta in occupazion permanente da parte dei lavoratori contro la vendita e la cemintificazione della storica struttura, non esclude la pista dolosa. Lo scoppio, stando ai primi rilevamenti della polizia scientifica, è avvenuto nella parte alta dell'edificio, ovvero tutta quella zona con i cablaggi e i riflettori. L'incendio è stato di tale entità da aver richiesto l'intervento di varie squadre dei vigili del fuoco di aver reso inagibile una struttura che occupa una superfice di circa 3000 metri quadrati per 14 metri di altezza.
È il secondo incendio che divampa negli studios in pochi anni ma, mentre in precedenza ad andare a fuoco furono un magazzino e delle scenografia, quasta volta è toccato ad un pezzo di storia della settima arte, non solo italiana, ma internazionale.

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Messaggio Da ubik Sab 18 Ago - 21:01

Elena Tebano per Corriere.it

Non è un gesto frequente in un luogo ricco di moralismi e avaro di solidarietà femminile come Hollywood. E invece Jodie Foster ha sorpreso tutti e ha scritto un'appassionata difesa di una collega più giovane, la «fedifraga» Kristen Stewart. Lo ha fatto firmando un articolo sul sito The Daily Beast che è anche un'auto-confessione, una breccia in quella corazza di riservatezza che la star 49enne ha costruito faticosamente in 46 anni di carriera. Dice di lei molto più di quanto dica dell'amica Kristen.

La Stewart, 22 anni, è nell'occhio del ciclone mediatico per la fine della relazione con Robert Pattinson, suo co-protagonista nella saga di Twilight: non solo lo ha tradito, ma anche ammesso pubblicamente di averlo fatto. Una mossa che i media americani hanno definito un «suicidio professionale». La previsione ha già trovato le prime conferme: dopo aver deciso di non comparire in Cali, il prossimo film di Nick Cassavetes che pure ha contribuito a produrre, Kristen ha anche perso il ruolo da protagonista nella saga di Biancaneve.

La Foster - lo racconta oggi Michele Farina sul Corriere - non entra nel caso, a lei interessano le conseguenze: «È una storia vecchia come il mondo, non è un delitto interessarsi alle lenzuola altrui. Belli, giovani: prima li mettiamo sul trono, poi li facciamo cadere e li guardiamo sanguinare. "Vedi, sono come noi". Ma raramente ci fermiamo a pensare alle adolescenze che distruggiamo in questo processo», scrive.

Oggi la pressione mediatica è fortissima, anche grazie ai social media, e per questo, spiega, «se fossi una giovane attrice mollerei prima di iniziare. Spererei che qualcuno che mi ama veramente mi abbracci e mi porti via, al sicuro». Ammette - è un'ammissione scioccante - di aver cercato di farlo con Kristen, quando lei aveva 11 anni e hanno lavorato insieme per 5 mesi sul set di Panic Room: ha chiesto alla madre di convincerla a cambiare lavoro.

Lei sa cosa significa, spiega, perché ha cominciato a recitare quando aveva tre anni. E qui il discorso si fa personale: «Non ho memoria di un'infanzia lontano dagli occhi del pubblico. Mi dicono che la mia è considerata una storia positiva. Spesso mi avvicinano dei perfetti estranei e mi chiedono: Come hai fatto a rimanere così normale, così equilibrata, così riservata?

Di solito mento e rispondo: immagino di essere semplicemente noiosa. La verità è che come una specie di curioso mutante radioattivo mi sono inventata i miei strumenti di sopravvivenza, mi sono costruita delle regole per tenere fuori gli sguardi invadenti - rivela - Probabilmente ho anche modificato le mie scelte professionali per garantire a me e alle persone che amo la maggiore dignità possibile. E sì, mi sono adattata in modo nevrotico a fare la gladiatrice, a una vita vissuta come bersaglio in movimento, braccata dai mostri della celebrity culture».

In questo strano caso di confessioni non richieste, anche la Foster ha ammesso l'inammissibile per Hollywood: di aver mentito di fronte a una domanda che le è stata ripetuta innumerevoli volte anche nelle interviste.

Nessuna star americana ha difeso la propria vita privata con altrettanta ferocia di lei. E nessuna è stata altrettanto criticata per la sua riservatezza. Il perché ha a che vedere con il suo (presunto?) orientamento sessuale: per decenni si sono rincorse le voci sulla sua omosessualità.

La Foster si è sempre rifiutata di rispondere a domande in proposito. E non ha mai detto chi fosse il padre dei suoi due figli: Charlie, nato nel 1998 e Kit, nato nel 2001. Per questo è stata duramente criticata dalle associazione gay, convinte che un suo coming out avrebbe aiutato a combattere i pregiudizi contro le donne lesbiche.

Poi, 5 anni fa, ricevendo un premio, Jodie ha ringraziato «la mia bella Cydney, che sta con me nella buona e nella cattiva sorte». Si tratta della produttrice Cydney Bernard. I figli della Foster portano anche il suo cognome: si chiamano Charlie e Kit Bernard Foster. E i giornali hanno titolato: «Jodie fa coming out». L'attrice in seguito ha sempre evitato di tornare sull'argomento.

È giusto? Ha ragione lei? Oppure accettare di sottoporsi allo sguardo del pubblico fa parte del «lavoro» dei personaggi famosi? Nel bene e nel male: accettando di essere giudicati per il modo in cui si vivono le proprie relazioni, ma anche sapendo di poter essere un modello positivo? La fama porta o no delle responsabilità pubbliche? Un pubblico coming out della Foster sarebbe stato d'aiuto contro i pregiudizi o avrebbe solo danneggiato la sua carriera?

C'è una cosa che nella sua difesa della Stewart Jodie Foster ancora non riesce a dire. Nel 1981, quando lei aveva 19 anni, un uomo ha sparato al presidente degli Stati Uniti solo per attirare la sua attenzione. John Hinckley Jr. ha imbucato una lettera in cui le annunciava le sue intenzioni e poi ha mancato il cuore di Ronald Reagan per 2 centimetri: avesse avuto più mira ora la storia sarebbe diversa. Non è difficile immaginare l'effetto che una cosa simile può aver avuto su una ragazzina 19enne.

È un bene che Jodie Foster, dopo quell'esperienza, non abbia smesso di recitare: ci ha regalato delle interpretazioni magnifiche. Personalmente spero che anche Kristen Stewart non rinunci al suo talento. Se non per il cinema, per una questione di giustizia. L'uomo con cui la giovane attrice ha tradito Pattinson è Rupert Sanders, il regista di Biancaneve e i cacciatori. È sposato e ha due figli. Lui però, a differenza della Stewart, non è stato cacciato dal sequel del film.

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Messaggio Da alexcda Dom 19 Ago - 22:12

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Messaggio Da anna Mer 29 Ago - 8:36

Venezia 2012 - Foto dal Festival: il battesimo della madrina Kasia Smutniak


Polacca di nascita ma italiana d’adozione, Kasia Smutniak è la madrina di questa 69esima edizione della Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia. A lei spetterà l’onere e l’onore di condurre la serata d’inaugurazione, domani sera, e quella di chiusura, il prossimo 8 settembre. Come da tradizione, anche la bella Kasia (avete letto l’intervista che ha rilasciato al suo arrivo in Laguna?) si è prestata a posare sulla spiaggia al tramonto per il rituale “battesimo”.
Nel frattempo, mentre fervono i preparativi in vista della serata di apertura, in mattinata sono sbarcate al Lido altre due bellissime protagoniste del Festival 2012: Laetitia Casta, membro della Giuria Internazionale; e Violante Placido.
Qui di seguito e dopo il salto la nostra photogallery di oggi. Appuntamento a domani con le foto dei protagonisti di The Reluctant Fundamentalist e le immagini dal red carpet

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tutte le foto QUI
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Messaggio Da anna Gio 30 Ago - 8:25

Venezia 2012 - The Reluctant Fundamentalist apre ufficialmente la 69a Mostra


I riflettori sono ora ufficialmente accesi sulla 69esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Il Festival di Venezia 2012 ha preso il via. Mentre scrivo, in Sala Grande viene proiettato The Reluctant Fundamentalist, il nuovo film diretto dalla regista indiana Mira Nair, presentato Fuori Concorso. The Reluctant Fundamentalist è un un thriller politico, tratto dal romanzo omonimo di Mohsin Hamid, bestseller internazionale tradotto in 25 lingue. Qui trovate la sinossi completa e qualche informazione aggiuntiva.
Ad accompagnare il film sono presenti al Lido, oltre alla regista, gli interpreti Riz Ahmed, Kate Hudson (con il compagno Matthew Bellamy, frontman dei Muse), e Liev Schreiber (con la compagna Naomi Watts). Fra gli altri grandi protagonisti della giornata, ci sono i membri delle tre girie del Festival: Venezia 69 (presieduta da Michael Mann, affiancato da Matteo Garrone, Laetitia Casta, Samantha Morton, Pablo Trapero, Marina Abramovic, Peter Ho-Sun Chan, Ari Folman ed Ursula Meier); Orizzonti (presieduta da Pierfrancesco Favino, affiancato da Sandra den Hamer, Runa Islan, Jason Kliot, Nadine labaki, Milcho Manchevski, Amir Naderi); ed Opera Prima (presiedutada Shekhar Kapur, e composta da Michel Demopoulos, Isabella Ferrari, Matt Reeves e Bob Sinclair). Las but not Least, il regista Jonathan Demme ed il sassofonista Enzo Avitabile, protagonista del documentario incentrato sulla sua carriera Enzo Avitabile Musica Life (qui la recensione).
Seguiteci dopo il continua per sfogliare il nostro album fotografico di oggi, con tutte le più belle immagini (sono pià di 60!) dei photocall e del red carpet della serata inaugurale, ricco di ospiti, di glamoour e di abiti da favola. Quale ci piace di più? Se non le avete viste, qui ci sono le foto di ieri.
Venezia 2012 - Foto dal Festival: The Reluctant Fundamentalist apre ufficialmente la 69a Mostra
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Messaggio Da anna Dom 2 Set - 21:27

Venezia 2012 - The Master: recensione in anteprima del film di Paul Thomas Anderson

Il film forse più atteso, e comunque “già visto”, della Mostra di Venezia si è finalmente mostrato nello splendore dei 70mm: The Master vede per protagonista Freddie Sutton, un reduce della Seconda Guerra Mondiale. Tornato salvo, ma non completamente “sano”, incontra Lancaster Dodd. L’uomo viene chiamato più comunemente “il Maestro”, visto che è a capo di una specie di setta. I due diventano amici, ma soprattutto Freddie diventa il “protetto” di Lancaster…
Inizi del 1900: Daniel Plainview, da signor nessuno, diventava terribile e potentissimo tycoon del petrolio. Metà secolo, durante gli anni 50: Lancaster Dodd diventa una delle figure più chiacchierate e temute d’America, grazie al suo progetto di una setta (chiamata nel film soltanto “la causa”). Paul Thomas Anderson ripercorre la Storia del suo paese, quasi stesse facendo il suo “Nascita di una nazione” in più parti, ed approda dalle parti della nascita di Scientology, setta religiosa nata grazie a L. Ron Hubbard.
“Prendete il controllo della vostra vita”, è uno degli slogan della “causa”. Freddie si trova proprio in questa situazione: deve riprendere il controllo della propria vita, dopo aver respirato l’odore della morte. All’inizio del film lo vediamo su una spiaggia intento ad arrampicarsi sugli alberi a prendere cocchi, che poi rompe con un machete. Oppure lo vediamo masturbarsi, imitare i movimenti del coito su una forma vagamente femminile con tanto di organo riproduttivo costruita con la sabbia. Freddie insomma, dopo la Guerra, è un uomo segnato, e non è più come prima

Già nel primo incontro tra Freddie e Lancaster, su una nave, il secondo ha la sensazione di conoscere il primo molto bene: forse ha già in mente che potrebbe essere il nuovo adetto della “causa”. Freddie è un alcolista, e i metodi della setta potrebbero salvarlo, rimettendolo sulla retta via: “Sarai la mia cavia, e sarai il mio protetto” dice l’uomo a Freddie. Definendosi un medico, un filosofo, uno scienziato, un fisico e tanto altro, Lancaster si pone subito come una figura dominante, un punto fermo del quale Freddie non può più fare a meno. Dall’altra parte, anche Lancaster sembra, man mano che il tempo passa, affezionarsi a Freddie…
Al fianco di Lancaster c’è la sua famiglia, nella quale spicca la figura della moglie Mary Sue (una fantastica Amy Adams). Freddie si inserisce in questo tessuto relazionale ed instaura una strana amicizia con Lancaster, che viene però messa a rischio da una parte dai problemi di Freddie: problemi legati alla violenza che l’uomo non riesce a gestire, e legati anche ai ricordi del passato. Ma ovviamente “la causa” sarà ragione di ulteriori complicazioni e drammi per Freddie, che resta ed è una figura completamente sola al mondo, ferita nella testa e nell’anima.
Paul Thomas Anderson continua la sua descrizione di un’America violenta e contraddittoria, nascosta per bene da una patina elegante, resa visivamente alla grande grazie ad abiti ed acconciature, arredi e canzoni. In The Master gli anni 50 ci sono in tutto e per tutto, ma non solo grazie a tutta la cura maniacale nei vari oggetti d’arredo o nei capelli delle signore: quel che interessa ad Anderson, ed è un discorso centrale nel suo film, è di creare un certo tipo d’atmosfera, che riesce ad ottenere sia grazie agli elementi squisitamente cinematografici, sia alla Storia di quegli anni.
La musica originale di Jonny Greenwood, con i suoi pizzicati e le sue “stonature”, e la fotografia di Mihai Malaimare Jr., coi suoi colori e le sue ombre, ci mettono un attimo per costruire un mood denso, sensuale e vagamente teso. La relazione tra Freddie e Lancaster resta sempre piuttosto vaga ed ambigua, tant’è che non viene mai portata allo scoperto nessuna particolare motivazione perché i due siano così attaccati, per un certo periodo, l’uno all’altro: se non per il fatto, appunto, che al primo serve un punto di riferimento e al secondo serve una “cavia”.
Ad Anderson non interessa molto mettersi a spiegare, e lo avevamo capito da po’: è invece interessato a far vivere allo spettatore le sensazioni contrastanti che prova Freddie. Perché The Master è uno studio psicologico che scava in profondità, e non lo fa con gli strumenti ordinari del cinema mainstream. E se può sembrare che giri a vuoto, in realtà sta costruendo un clima che diventa sempre più cupo per il protagonista, interpretato magnificamente da Joaquin Phoenix (se il film non sarà Leone d’Oro, sappiamo di chi sarà la Coppa Volpi maschile). Ma anche un clima che ha il sapore di una sottile ed inesorabile tristezza.
Schegge di passato si impadroniscono delle emozioni più autentiche del film: sono quei momenti in cui Freddie ricorda un amore, una ragazza che aveva iniziato a frequentare prima che l’America entrasse in guerra. Una sedicenne, una cotta che si era trasformata in amore molto presto, e che Freddie non ha mai dimenticato. Anche grazie a questi momenti, The Master mostra il lato più inedito del cinema di Anderson: una tenerezza ed una malinconia che si vanno a sostituire all’energia dirompente di certe scene de Il Petroliere, con il quale il film condivide però lo stesso modo di fare cinema, per quel che riguarda lo sviluppo di una storia. Anche certe scene potrebbero ricollegarsi all’opera precedente: si veda lo scontro finale tra Freddie e Lancaster, speculare a quello tra Plainview ed H.W..
E nel suo ritmo “musicale”, The Master ricorda invece quasi l’imprevedibilità di Ubriaco d’amore: segno di una poetica che si presta a confronti tra le varie opere, ma conferma anche di un film che ha una sua unicità straordinaria, nonostante racconti quello che è ormai l’argomento centrale dei film di Paul Thomas Anderson: il rapporto e il conflitto con il “padre”, con una figura centrale, un guru. La tematica, reinserita nel suo contesto storico, ci regala l’affresco di una paese tornato a casa dalla guerra sì vittorioso ed eroico, ma traumatizzato, senza bussola, e disperatamente in cerca di un’ancora.
In questo contesto, ci suggerisce Anderson, è stata possibile la nascita di sette come quella di Lancaster, la cui figura è indubbiamente - possiamo dirlo dopo aver visto il film - ispirata ad Hubbard. La setta di Lancaster dovrebbe fare anche miracoli curando la leucemia, e promette viaggi spazio-temporali. Mary Sue, una figura costantemente nell’ombra eppure sempre presente, chiede a Freddie di fissarle gli occhi: “Di che colore sono?”. Possono essere verdi o azzurri, ma se Mary Sue vuole anche… neri. Quando non si ha più nulla, la fede in qualcosa diventa fondamentale per sopravvivere, con tutte le conseguenze del caso…
Scritto con sopraffina intelligenza cinematografica, con quella giusta dose di “coraggio” che ci vuole per scrivere una sceneggiatura dal ritmo ridondante, ma in realtà asciutta ed essenziale, The Master regala vari momenti per cui bisognerebbe non avere dubbi sul perché amarlo: si veda anche soltanto il primo, mostruoso botta-e-riposta tra Freddie e Lancaster, in cui il “maestro” fa un test al suo nuovo “discepolo” costringendolo a tenere aperti gli occhi senza sbattere le palpebre.
The Master può lasciare perplessi, ma se lo fa è per la quantità di domande che riesce a porre allo spettatore, a cui viene richiesto un grado di partecipazione attiva durante la visione abbastanza impegnato. Ma si esce dalla sala arricchiti, un po’ spaventati, forse tristi, ma soprattutto, se si avrà la voglia di discutere e ripensare la pellicola, con un paio di domande le cui risposte potrebbero aprire voragini: che cosa significa il finale? Noi abbiamo un’idea concreta. Ma soprattutto: siamo sicuri ci sia solo un “maestro”? Anche qui noi abbiamo un’ipotesi…

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Messaggio Da anna Dom 2 Set - 21:32

Venezia 2012 - To the Wonder: Recensione in Anteprima del film di Terrence Malick

Avvolto da una coltre di fitto mistero, To the Wonder si mostra finalmente agli occhi degli intervenuti qui a Venezia. Ed è un timido palesarsi il suo, contraddistinto da un delicato pudore. Quello che da molti è già stato scambiato per becero ermetismo. Come se Terrence Malick adorasse proprio non farsi capire - se non lui, i suoi lavori.
Ed invece c’è tanto da cogliere perlustrando le inquietanti profondità di quest’ultima opera del cineasta texano. Il compromesso implicito è quello di sporcarsi le mani, rimestando un terreno apparentemente arido e tutt’altro che promettente. Questo è il tipo di sollecitazione che pretende To the Wonder.
Perché per arrivare a sfiorare quella meraviglia cui allude il titolo, bisogna completamente abbandonarsi ad un susseguirsi di eventi sconnessi, di immagini, che non hanno alcuna pretesa di essere raccolti per poi essere rinchiusi all’interno di un contesto unico, definitivo ed inequivocabile.
Lungi dal sostenere, come qualcuno pensa, che Malick ci tratti con irritante e malcelata sufficienza, siamo pienamente convinti che, al contrario, nutra una stima spropositata per lo spettatore. Il suo non è un cinema accomodante, non lo è per nulla. Non copre di adulazione chi lo guarda per il semplice fatto di avergli accordato la “fiducia” di una visione
Tutti, per esempio, ci siamo domandati per mesi (se non per anni, visto che l’annuncio di To the Wonder risale all’inzio del 2010) di cosa parlasse questo film. Domanda pretenziosa, se si pensa a chi è rivolta. Ma almeno capire da quali intenti fosse mosso, ed in relazione a quali dinamiche. Niente da fare; fino ad oggi ci è stato negato persino questo.
Ve lo diciamo noi, allora, a cosa si riferisce. Poche battute, per poi lasciarci andare a ciò che davvero ci interessa. Neil (Ben Affleck) e Marina (Olga Kurylenko) formano una giovane coppia conosciutasi in Francia. Lui si è lasciato alle spalle il proprio passato trasferendosi dall’Oklahoma a Parigi, mentre lei è divorziata, madre di una ragazzina di dieci anni. I due si amano di un sentimento sincero. Fino a quando qualcosa non comincia a cambiare. Travolti da questi mutamenti interni, ha inizio il loro percorso. Percorso che s’intreccia anche con altre storie, pur restando più in superficie, in termini di visibilità, rispetto a tutti gli altri.
Ma come sempre, i film di Malick non vanno raccontati… vanno vissuti. Ce ne accorgiamo leggendo la sinossi lunga: all’apparenza altro non è che un classico dramma romantico, non privo di intensità magari, ma assolutamente in linea col genere. Quel che rivolta letteralmente le premesse narrative, di cui abbiamo appena accennato, è piuttosto il tocco di Malick. La mano di un’artista che tratta questo mezzo in maniera unica, incomparabile.
Ecco allora che il dramma di una coppia, un’ordinaria coppia, si trasforma nel dramma universale dell’uomo. Di ciascun uomo o donna, senza confini epocali. All’interno di uno scenario abbastanza marcato in termini di collocazione temporale, comunque, dato che le vicende sono palesemente circoscritte all’attualità. Ma il periodo è solo un prestesto, una cornice, se vogliamo. Ciò che interessa a Malick è il senza-tempo, l’eterno.
Nessuno dei suoi personaggi è semplicemente un personaggio. E’ davvero facile farsi trarre in inganno dalla vistosa limitatezza dei dialoghi, equivocandone il peso specifico nell’ambito dell’intero impalco di narrazione. Le maschere che orbitano attorno alle storie di Malick non sono mai contorno. Impossibile immaginare uno qualunque dei suoi film senza anche solo uno di loro. Non da meno è To the Wonder.
Dietro all’apparente enigmaticità dei suoi lavori, Malick ci mostra per ciò che ognuno di noi è. Questa sua ultima fatica fa perno sull’incertezza, condivisa perché atavica. Incertezza dinanzi ad ogni realtà avvertita dall’animo umano. Non importa né dove né quando, perché chiunque può e deve riconoscersi in questi personaggi. Per lo meno limitatamente ad una delle loro peculiarità.
Soffermiamoci su un aspetto del film. In To the Wonder, come già accennato, i dialoghi sono ridotti all’osso. La trama procede attraverso pensieri, parole, proferite come se nessuno dovesse ascoltarle. Come impresse con l’inchiostro su dei pezzi di carta, per poi essere immediatamente bruciati. Eppure sono addirittura quattro le lingue parlate: francese, inglese, spagnolo e italiano. Ciò conferma che il linguaggio verbale non è che una convenzione, qualcosa di cui abbiamo bisogno tutt’al più per facilitarci le cose. Ma Malick ha in mano uno strumento potente, grazie al quale può benissimo fare a meno di queste utili agevolazioni. Tale strumento è la macchina da presa. O meglio, il Cinema.
Tutto ciò che gli viene messo a disposizione da tale strumento concorre a costruire un discorso che può benissimo prescindere dalla parola. Certi movimenti di camera, certi tagli di montaggio. Malick stravolge il ritmo diegetico mescolandolo, rievocandolo, masticandolo e poi sputandolo sotto forma di una creatura indescrivibile.
Una creatura il cui odore entra nella pelle, in qualche modo cambiandoci, anche se solo per poco tempo. Non a tutti è dato esperire questa influenza. Da qui le perplessità, gli equivoci, se non addirittura le recriminazioni di chi riesce al massimo ad annoiarsi. Sempre che lo si sia portato fino in fondo.
To the Wonder è anche un’opera che si concentra molto sul concetto di perdita. Perché tutti, strada facendo, perdiamo qualcosa: una persona amata, un sogno, persino noi stessi. “Tu mi hai ridato la vita“, sussura Marina all’inizio del film, rivolgendosi a Neil. Affermazione tremenda, che innesca dei meccanismi su cui ci si può a malpena affacciare. Perché la ritrovata vita della tenera Marina porta in dote due nuovi amori: quello per Neil e quello per l’amore stesso. E’ talmente innamorata la giovane da avere un solo desiderio: essere moglie. Ma è qui che s’insinua il paradosso. Neil non intende sposarsi, scatenando una situazione angosciosa, quella che solo l’amore può comportare. “Se davvero lo amo, mi deve bastare stargli accanto, senza pretendere il matrimonio“, rimugina Marina.
Ma questo nostro estrapolare frasi, ci rendiamo conto, tende a banalizzarne la portata. Parole che in mano a tantissimi altri ci sarebbero apparse smielate, prive di qualsivoglia mordente, venute fuori dalla straripante penna di Malick assumono tutta un’altra consistenza.
Perché, come sempre, perno ed epicentro è ciò che vediamo. Tale e tanto l’influsso visivo di To the Wonder, che il fascino emanato dalle immagini ci confondono, distogliendo l’attenzione da tutto il resto. Quella restante parte che eppure sta fortemente a cuore al regista, visto che sono davvero poche le occasioni in cui un brano musicale (per lo più classici) non accompagni quei quadri incantevoli che riesce a presentarci. Quadri in movimento, così come lo è lo sviluppo dei personaggi.
Abbiamo menzionato i movimenti di camera. Ma ciò riguarda solo le persone su cui Malick concentra la propria attenzione. Torna qui prepotentemente il dualismo tra Natura e Grazia. L’uomo, in quanto dotato di spirito e quindi capace di ricevere Grazia, è un essere in continuo divenire; qui trasposto in movimento, per l’appunto. Alla Natura, invece, non appartiene affatto tale dimesione, poiché essenzialmente immobile, immutabile. Da qui le numerose e suggestive inquadrature fisse di cui To the Wonder è colmo.
Contrariamente alle impressioni che serpeggiano qui al Lido, noi siamo piuttosto convinti che anche questa nuova pellicola di Malick sia un’opera completa, oseremmo dire totale. Come in The Tree of Life, il cinesta di Waco ci offre uno squarcio radicale sull’universalità. In esso troviamo, per esempio, l’amore profano di due giovani che si amano ma che non riescono a vivere insieme, così come l’amore sacro di un prete (Javier Bardem) che sta attraversando il cosiddetto buio della Fede.
Tutti così meravigliosamente fragili, eppure così straordariamente capaci di rovesciare ogni cosa. Uomini e donne non forti in senso stretto, ma dotati di una forza che è l’unica cosa ad accomunarli. Ciascuno col proprio percorso, coi propri dubbi. E se il loro sviluppo risulta “incoerente”, vale a dire che sono autentici, vivi.
Come reagire dinanzi al crollo di una Fede, di un amore o di qualunque altra certezza che poi tale non è? Ed è questo ciò che devono maturare le anime di cui ci vengono opacamente mostrate le vite, ossia la persistente capacità di sapersi mettere in discussione. Partendo dal turbamento di una scossa, scoprendo che nessuno di noi è fatto per “rimanere ciò che è”. Ecco allora che le presunte certezze altro non sono che ostacoli tremendi, da evitare, da combattere.
Un film, questo, che in fondo ci piace considerare come un prequel di The Tree of Life; quest’ultimo comincia esattamente laddove To the Wonder finisce. Lì la celebrazione della Grazia nel Creato, opposta alla Natura, ferale, a tratti indomabile. Qui la ricerca radicale di quella Grazia, temuta, negata, ma il cui approdo è costantemente di lì a venire. Meno conciliante rispetto al concetto che si cela dietro all’albero della vita (ne parlammo in sede di recensione, ricordate?).
Un ritratto commovente, quello dipinto in To the Wonder. Straziante, doloroso, intensamente tragico. Dalla forte impronta teatrale, a tratti volutamente esasperato ed esasperante in ciò che mostra e in ciò a cui rimanda. Uno spaccato struggente della bramosia di amore insita nel cuore dell’uomo. Anche quando non lo si capisce, quando non lo si comprende, non si fa altro che tendere ad esso (l’amore).
E in cosa consiste la meraviglia a cui allude Malick? Probabilmente ce lo dice padre Quintana (Bardem), orribilmente turbato da un’inspiegabile (per lui) “mancanza” di Fede. Lo dice allorché invita Neil (Affleck) a perdonare, spronandolo risolutamente alla scontro; il peggiore degli scontri. Quello contro sé stessi.
Voto di Antonio: 9
To the Wonder (USA, 2012). Di Terrence Malick, con Rachel McAdams, Ben Affleck, Javier Bardem, Olga Kurylenko, Tatiana Chiline e Romina Mondello. Nelle nostre sale dal 14 Dicembre.

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